Una veduta dell'Agordino martoriato

BELLUNO. Centosessantamila utenze non alimentate dall’energia elettrica; solo nella provincia di Belluno oltre 3 mila volontari di protezione civile, a cui vanno ad aggiungersi centinaia di vigili del fuoco, l’esercito, il soccorso alpino. 1.600 interventi sul campo; otto paesi completamente isolati dove si arrivava solo a piedi; 400 persone evacuate dalle proprie case. 500 km di strade statali, provinciali e regionali chiuse, per non parlare di quelle comunali; centinaia di metri di acquedotti divelti e centinaia di migliaia gli alberi rasi al suolo.

«Sono solo alcuni numeri di un’emergenza epica», sospira ora di sollievo Giampaolo Bottacin, numero uno della Protezione civile, «per uscire dalla quale non abbiamo lasciato davvero nulla al caso».

Ha mai avuto paura di non farcela?

«Lunedì alle 22.30 quando, in videoconferenza col Dipartimento nazionale della protezione civile, ho attivato l’Esercito perché ho capito che la situazione era molto grave. E poi quando ho chiesto alla Lombardia e al Trentino di aprire il canale scolmatore Adige-Garda per non allagare Verona».

Quando non è riuscito a trattenere le lacrime?

«Quando un volontario mi ha detto che avevano raggiunto una persona anziana totalmente isolata e che, con l’acqua che i volontari gli avevano dato, ha voluto fare loro il caffe, dopo averli abbracciati».

Il governatore Zaia sostanzialmente le ha delegato funzioni commissariali...

«Per la prima volta è stato sperimentato il sistema dell’Unità di crisi. Abbiamo sperimentato sul campo la nuova legge sulla Protezione civile, il cui testo è stato integrato con mie proposte. Per esempio il fatto che il presidente è diventato autorità di protezione civile. Inoltre la Regione definisce le modalità di coordinamento dell’attuazione degli interventi urgenti e dello svolgimento dei servizi di emergenza. I prefetti devono perciò coordinarsi con la struttura regionale per la direzione unitaria di tutti i servizi di emergenza, tramite l’unità di crisi regionale che coordina tutte le attività alla cui guida c’era il sottoscritto».

Quindi non sono più le prefetture a coordinare. Come è la struttura di gestione?

«L’unità di crisi si coordina con i sette comitati di coordinamento soccorsi (Ccs) presieduto dai prefetti che a loro volta coordinano i centri operativi misti (Com) che a poi coordinano i centri comunali (Coc)».

Da dove nasce il nuovo ruolo della Regione?

«Ragionando sull’evoluzione della normativa, nelle varie conferenze propedeutiche, prendendo spunto dalle esperienze precedenti avevamo evidenziato che i prefetti spesso non avevano tutti gli strumenti per gestire un’emergenza complessa tipo questa».

Il primo allarme è arrivato dall’Arpav?

«Sì. L’Arpav ha dimostrato di essere un’eccellenza nazionale. Dalle previsioni meteo la Regione con i suoi modelli idraulici è riuscita a prevedere le portate dei fiumi per garantire eventuali evacuazioni».

Piangiamo tre morti, anzi cinque con i due di Rivamonte. Ma senza gli interventi di prevenzione di questi anni il bilancio di certo sarebbe stato ben più tragico...

«La Regione ha investito 866 milioni negli ultimi anni su consolidamenti arginali, bacini di laminazione, briglie, ricalibratura corsi d’acqua e altri interventi di difesa del suolo. Nel 2010 aveva piovuto meno di questa volta e avevamo mezzo Veneto allagato con 32 rotture arginali. Cosa che non è accaduta in questi giorni. Anche i circa 100 milioni impiegati in montagna hanno evitato conseguenze ben peggiori. Ricordo che in questo evento abbiamo registrato anche 700 mm di pioggia caduti e venti con velocità oltre 190 km/h. I parametri di un uragano».

Il vescovo Marangoni ha definito sorprendente il comportamento della gente.

«I bellunesi si sono confermati persone piene di forza d’animo, di dignità e forza di braccia perché non hanno aspettato nessuno e si sono rimboccati le maniche. Li ringrazio, sono orgoglioso di essere parte di un popolo così grande. Anche dal punto di vista professionale è stata una grandissima esperienza; molte attestazioni di stima mi sono arrivate e tra le tante mi hanno fatto piacere quelle dell’ingegner D’Angelo, direttore generale delle emergenze del Dipartimento nazionale della Protezione civile, e del professor Giuseppe Maschio, responsabile del corso di ingegneria della sicurezza dell’università di Padova e membro della Commissione grandi rischi del Dipartimento Nazionale della Protezione civile».

Quanto non ha dormito da quel 28 ottobre?

«Ho dormito pochissimo sia per la tensione e sia per le continue videoconferenze con prefetture e col Dipartimento».

Da che cosa ha tratto più conforto?

«Mi ha confortato sapere come sono i veneti che ci hanno aiutati ad aiutarli. Tirandosi su le maniche senza aspettare. Con grande dignità. Un grande popolo. Li ringrazio».

Quale lezione ha ricavato e quale consiglia ai bellunesi e ai veneti?

«La lezione tratta è che le opere di prevenzione vanno fatte senza se e senza ma. Velocemente e senza perdere tempo con procedure complesse e concertazioni che bloccano tutto, spesso generate da sindrome di nimby che in questo caso sono fuori luogo. Prima di tutto la sicurezza degli esseri umani e poi tutto il resto».

Aveva messo in conto che