Ologrammi di vita reale

Più aumentano gli aiuti più peggiora l'economia - gz  

  By: GZ on Venerdì 17 Giugno 2005 02:06

(....I dati portati da Erixon mostrano che via via che gli aiuti all’Africa aumentavano dal 5% del Pil continentale (1970) al 18% (1995), la crescita del Pil pro-capite crollava dal 15-17% a negativa; per riprendere a metà Anni Novanta quando gli aiuti sono tornati a calare.....) Il G8 ha approvato 40 miliardi di dollari di aiuti (cancellazione del debito) per l'Africa (di cui all'Italia spetteranno un 3 miliardi, più o meno il fantomatico taglio dell'Irap). Su scale diverse sempre la stessa cosa. Che siano i genitori che proteggono e sussidiano il figlio ogni volta che è in difficoltà e se lo ritrovano cinque anni fuori corso, lo stato italiano che stanzia 20mila miliardi sulla Campania e si ritrova camorra e e clientele padrone della città o i politici progressisti che chiedono 40 miliardi di dollari "per l'Africa" ein questo modo mantengono al potere regimi corrotti che senza quei soldi crollerebbero. --------------------------------------------------------------- Le rockstar sbagliano Aiuti dannosi per l’Africa» Studio attacca il piano Blair: ^i fondi rafforzano i regimi#http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=ESTERI&doc=AFRICA^ Secondo Erixon, la ragione per la quale, dopo decenni di dichiarazioni di buona volontà e 400 miliardi di dollari di sostegno occidentale, l’Africa resta in condizioni economiche e sociali pessime è che gli aiuti non funzionano quando si è fortunati, fanno del male nella maggior parte dei casi. A poche settimane dal G8 di luglio in Scozia, che avrà al centro delle discussioni la lotta alla povertà, e a pochi giorni dalle marce e dalla serie concerti di beneficenza, previsti in tutto il mondo, che lo accompagneranno, questo è l’attacco finora più forte alla Rock Star Economics , quel complesso di teorie rese popolari da musicisti e attori che sostengono la necessità di raddoppiare subito gli aiuti ai Paesi più poveri. «Gli economisti-rock star vedono il mondo attraverso occhiali rosa - sostiene Julian Morris, direttore dell'International Policy Network (Ipn), l’istituto britannico che ha pubblicato l’analisi -. La loro convinzione che gli aiuti vadano a beneficiare i poveri è mal posta. La realtà è che gli aiuti premiano il fallimento e rafforzano regimi che diversamente sarebbero stati fatti fuori». I dati portati da Erixon mostrano che via via che gli aiuti all’Africa aumentavano dal 5% del Pil continentale (1970) al 18% (1995), la crescita del Pil pro-capite crollava dal 15-17% a negativa; per riprendere a metà Anni Novanta quando gli aiuti sono tornati a calare. Lo studio sostiene che se i governi occidentali facessero come richiesto da Jeffrey Sachs, l’economista che ha studiato la strategia Onu per eradicare la povertà, e come proposto dal primo ministro britannico Tony Blair, cioè se aumentassero gli aiuti all'Africa di 25 miliardi di dollari l’anno, «le conseguenze potrebbero essere devastanti. Troppo spesso gli aiuti hanno fatto più male che bene, specialmente in Africa. Hanno ingigantito le élite politiche e tolto potere all’uomo comune». Erixon confuta alla radice la teoria indiscussa da decenni secondo la quale gli aiuti esteri avrebbero la forza di dare la spinta iniziale a un’economia e rompere così il «circolo vizioso della povertà». In realtà, dice l’economista, «i Paesi non sono poveri perché mancano di strade, scuole o ospedali. Mancano di queste cose perché sono poveri. E sono poveri perché non hanno le istituzioni di una società libera, le quali creano le condizioni di base per lo sviluppo economico». In altri termini, a condannare alla povertà è l’assenza di diritti di proprietà, di leggi e norme, di mercati aperti, di governi onesti e non invadenti, di commercio estero. Gli aiuti, al contrario, hanno due tipi di effetti negativi: spostano l'attenzione dal problema vero, cioè dalla creazione di istituzioni che funzionano; e soprattutto spingono ai margini gli investimenti privati, danno risorse a regimi dispotici per continuare a opprimere, minano la democrazia, perpetuano la povertà. Qualche esempio nella storia moderna dell’Africa? Tra gli altri, i casi dello Zimbabwe, dell’Uganda, del Congo. Lo studio dell’Ipn - che è stato pubblicato assieme a centri di ricerca di Sudafrica, Hong Kong, India, Ghana, Israele e Nigeria - analizza gli effetti degli aiuti sulla crescita in generale e scopre che sono sempre negativi. E come esempio da seguire porta (a parte Cina e India) il Botswana, il quale si è dato buone istituzioni economiche e ha avuto una bassa «interferenza» di aiuti esteri, con il risultato che il suo tasso di crescita negli scorsi 30 anni è stato «tra i più alti del mondo» e il reddito pro-capite è oggi di ottomila dollari l'anno, contro i meno di mille di molti Paesi africani. Non è detto, insomma, che il concerto più virtuoso sia quello rock. Danilo Taino

 

  By: Gilberto on Venerdì 20 Maggio 2005 16:43

creando viceversa un popolo di SCHIAVI comandati da dei rimbambiti con il potere e l'esercito nelle loro mani. ------------------------------------------------- Verissimo Cisha , chi parla di Cina , spesso vede solo un PIL al 9% , ma tende a chiudere gli occhi di fronte a una situazione incredibile dal punto di vista umanitario ! Ma quello che mi fa' più incavolare è che in Italia ci sono molti capannoni gestiti da cinesi che presentano le stesse condizioni di sfruttamento dei bambini . Qui la merce non deve nemmeno entrare in Italia...è già dentro!! Ma possibile che la GDF non veda i siti produttivi ?!!? Questo taroccamento di prodotti non dovrebbe ammazzare il made in Italy ?! Qui in Italia , non ci sono leggi che vietano lo sfruttamento minorile ?!? Cmq per il comunismo cinese , non sono stupito .... il comunismo si presenta come difensore dei deboli , ma il suo volto reale è quello della popolazione cinese schiavizzata e senza diritti o quello della Corea del Nord totalmente fuori dal mondo ... Qui l'ONU dov'è ?!!?

 

  By: Moderator on Venerdì 20 Maggio 2005 11:27

Cisha ,tempo perso . I comunisti e affini da noi non ci sono , non ci sono più . C'è l'IMPRINTING . L'etologo Lorenz ha insegnato che se fai schiudere le uova di oca vicino ad un essere umano , i pulcini seguiranno l'uomo e non la mamma oca ; si credono umani. Loro sono nati qua , la loro mamma non c'è più , e credono di essere democratici e liberisti , ma non capiscono che sono oche ;poi si vede da quello che gli piace , dai loro istinti, da quello a cui aspirano che sono ochette , e alla fine si tufferanno sempre nello stagno e mangeranno vermetti.

 

  By: cisha on Venerdì 20 Maggio 2005 09:57

per Gilberto: Su RADIO UNO RAI alle 19,45 tutte le sere c'è Zapping una bellissima trasmissione condotta da Aldo Forbice a cui partecipano alcuni direttori di giornali e rispondono a domande varie commentano le opinioni di ascoltatori sugli argomenti all'ordine del giorno, sulle notizie attinenti alla nostra società ed alla politica in generale; ogni tanto hanno delle iniziative speciali tutte con indirizzo prettamente umanitario .....Attualmente c'è l'iniziativa "la Cina non è vicina" per sensibilizzare l'opinione pubblica sul rispetto dei diritti umani che come descritto anche nel Suo post, vengono disattesi, nonostante che il COMUNISMO, che dovrebbe essere la dottrina superiore che protegge i PROLETARI ovvero chi lavora per la propria prole, i figli, la famiglia, lì abbia radicato da 70 anni creando viceversa un popolo di SCHIAVI comandati da dei rimbambiti con il potere e l'esercito nelle loro mani...e non mi dilungo se no poi i vari catto-comunisti del forum si agitano troppo e magari si perdono qualche buona tradata. Sul sito della rai (www.radio.rai.it) si può cercare la trasmissione Zapping e spedire via e-mail la testimonianza del suo inviato ed aderire alla campagna di cui sopra. Saluti

 

  By: Gilberto on Giovedì 19 Maggio 2005 15:24

No comment .... ------------------------------------------------------- I lager cinesi che fabbricano il sogno occidentale dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI Per confezionare un paio di Timberland, vendute in Europa a 150 euro, nella città di Zhongshan un ragazzo di 14 anni guadagna 45 centesimi di euro. Lavora 16 ore al giorno, dorme in fabbrica, non ha ferie né assicurazione malattia, rischia l'intossicazione e vive sotto l'oppressione di padroni-aguzzini. Per fabbricare un paio di scarpe da jogging Puma una cinese riceve 90 centesimi di euro: il prezzo in Europa è 178 euro per il modello con il logo della Ferrari. Nella fabbrica-lager che produce per la Puma i ritmi di lavoro sono così intensi che i lavoratori hanno le mani penosamente deformate dallo sforzo continuo. Gli operai cinesi che riforniscono i nostri negozi - l'esercito proletario che manda avanti la "fabbrica del mondo" - cominciano a parlare. Rivelano le loro condizioni di vita a un'organizzazione umanitaria, forniscono prove dello sfruttamento disumano, del lavoro minorile, delle violenze, delle malattie. Qualche giornale cinese rompe l'omertà. Ci sono scioperi spontanei, in un Paese dove il sindacato unico sta dalla parte dei padroni. Vengono alla luce frammenti di una storia che è l'altra faccia del miracolo asiatico, una storia di sofferenze le cui complicità si estendono dal governo di Pechino alle multinazionali occidentali. La fabbrica dello "scandalo Timberland" è nella ricca regione meridionale del Guangdong, il cuore della potenza industriale cinese, la zona da cui ebbe inizio un quarto di secolo fa la conversione accelerata della Cina al capitalismo. L'impresa di Zhongshan si chiama Kingmaker Footwear, con capitali taiwanesi, ha 4.700 dipendenti di cui l'80% donne. Ci lavorano anche minorenni di 14 e 15 anni. La maggioranza della produzione è destinata a un solo cliente, Timberland. Kingmaker Footwear è un fornitore che lavora su licenza, autorizzato a fabbricare le celebri scarpe per la marca americana. Le testimonianze dirette sui terribili abusi perpetrati dietro i muri di quella fabbrica sono state raccolte dall'associazione umanitaria China Labor Watch, impegnata nella battaglia contro lo sfruttamento dei minori e le violazioni dei diritti dei lavoratori. Le prove sono schiaccianti. Di fronte a queste rivelazioni il quartier generale della multinazionale ha dovuto fare mea culpa. Lo ha fatto in sordina; non certo con l'enfasi con cui aveva pubblicizzato il premio di "migliore azienda dell'anno per le relazioni umane" decretatole dalla rivista Fortune nel 2004. Ma attraverso una dichiarazione ufficiale firmata da Robin Giampa, direttore delle relazioni esterne della Timberland, ora i vertici ammettono esplicitamente: "Siamo consapevoli che quella fabbrica ha avuto dei problemi relativi alle condizioni di lavoro. Siamo attualmente impegnati ad aiutare i proprietari della fabbrica a migliorare". I "problemi relativi alle condizioni di lavoro" però non sono emersi durante le regolari ispezioni che la Timberland fa alle sue fabbriche cinesi (due volte l'anno), né risultano dai rapporti del suo rappresentante permanente nell'azienda. Sono state necessarie le testimonianze disperate che gli operai hanno confidato agli attivisti umanitari, rischiando il licenziamento e la perdita del salario se le loro identità vengono scoperte. "In ogni reparto lavorano ragazzi tra i 14 e i 16 anni", dicono le testimonianze interne: uno sfruttamento di minori che in teoria la Cina ha messo fuorilegge. La giornata di lavoro inizia alle 7.30 e finisce alle 21 con due pause per pranzo e cena, ma oltre l'orario ufficiale gli straordinari sono obbligatori. Nei mesi di punta d'aprile e maggio, in cui la Timberland aumenta gli ordini, "il turno normale diventa dalle 7 alle 23, con una domenica di riposo solo ogni 2 settimane; gli straordinari s'allungano ancora e i lavoratori passano fino a 105 ore a settimana dentro la fabbrica". Gli informatori dall'interno dello stabilimento hanno fornito 4 esemplari di buste paga a China Labor Watch. La paga mensile è di 757 yuan (75 euro) "ma il 44% viene dedotto per coprire le spese di vitto e alloggio". Vitto e alloggio significa camerate in cui si ammucchiano 16 lavoratori su brandine di metallo, e una mensa dove "50 lavoratori sono stati avvelenati da germogli di bambù marci". In fabbrica i manager mantengono un clima d'intimidazione "incluse le violenze fisiche; un'operaia di 20 anni picchiata dal suo caporeparto è stata ricoverata in ospedale, ma l'azienda non le paga le spese mediche". Un mese di salario viene sempre trattenuto dall'azienda come arma di ricatto: se un lavoratore se ne va lo perde. Altre mensilità vengono rinviate senza spiegazione. L'estate scorsa il mancato pagamento di un mese di salario ha provocato due giorni di sciopero. Anche il fornitore della Puma è nel Guangdong, località Dongguan. Si chiama Pou Yuen, un colosso da 30.000 dipendenti. In un intero stabilimento, l'impianto F, 3.000 operai fanno scarpe sportive su ordinazione per la multinazionale tedesca. La lettera di un'operaio descrive la sua giornata-tipo nella fabbrica. "Siamo sottoposti a una disciplina di tipo militare. Alle 6.30 dobbiamo scattare in piedi, pulirci le scarpe, lavarci la faccia e vestirci in 10 minuti. Corriamo alla mensa perché la colazione è scarsa e chi arriva ultimo ha il cibo peggiore, alle 7 in punto bisogna timbrare il cartellino sennò c'è una multa sulla busta paga. Alle 7 ogni gruppo marcia in fila dietro il caporeparto recitando in coro la promessa di lavorare diligentemente. Se non recitiamo a voce alta, se c'è qualche errore nella sfilata, veniamo puniti. I capireparto urlano in continuazione. Dobbiamo subire, chiunque accenni a resistere viene cacciato. Noi operai veniamo da lontani villaggi di campagna. Siamo qui per guadagnare. Dobbiamo sopportare in silenzio e continuare a lavorare. (...) Nei reparti-confezione puoi vedere gli operai che incollano le suole delle scarpe. Guardando le loro mani capisci da quanto tempo lavorano qui. Le forme delle mani cambiano completamente. Chi vede quelle mani si spaventa. Questi operai non fanno altro che incollare... Un ragazzo di 20 anni ne dimostra 30 e sembra diventato scemo. La sua unica speranza è di non essere licenziato. Farà questo lavoro per tutta la vita, non ha scelta. (...) Lavoriamo dalle 7 alle 23 e la metà di noi soffrono la fame. Alla mensa c'è minestra, verdura e brodo. (...) Gli ordini della Puma sono aumentati e il tempo per mangiare alla mensa è stato ridotto a mezz'ora. (...) Nei dormitori non abbiamo l'acqua calda d'inverno". Un'altra testimonianza rivela che "quando arrivano gli uomini d'affari stranieri per un'ispezione, gli operai vengono avvisati in anticipo; i capi ci fanno pulire e disinfettare tutto, lavare i pavimenti; sono molto pignoli". Minorenni alla catena di montaggio, fabbriche gestite come carceri, salari che bastano appena a sopravvivere, operai avvelenati dalle sostanze tossiche, una strage di incidenti sul lavoro. Dietro queste piaghe c'è una lunga catena di cause e di complicità. Il lavoro infantile spesso è una scelta obbliga per le famiglie. 800 milioni di cinesi abitano ancora nelle campagne dove il reddito medio può essere inferiore ai 200 euro all'anno. Per i più poveri mandare i figli in fabbrica, e soprattutto le figlie, non è la scelta più crudele: nel ricco Guangdong fiorisce anche un altro mercato del lavoro per le bambine, quello della prostituzione. Gli emigranti che arrivano dalle campagne finiscono nelle mani di un capitalismo cinese predatore, avido e senza scrupoli, in un paese dove le regole sono spesso calpestate. Alla Kingmaker che produce per la Timberland, gli operai dicono di non sapere neppure "se esiste un sindacato; i rappresentanti dei lavoratori sono stati nominati dai dirigenti della fabbrica". Le imprese che lavorano su licenza delle multinazionali occidentali, come la Kingmaker e la Pou Yuen, non sono le peggiori. Ancora più in basso ci sono i padroncini cinesi che producono in proprio. Per il quotidiano Nanfang di Canton, i due giornalisti Yan Liang e Lu Zheng sono riusciti a penetrare in un distretto dell'industria tessile dove il lavoro minorile è la regola, nella contea di Huahu. Hanno incontrato Yang Hanhong, 27 anni, piccolo imprenditore che recluta gli operai nel villaggio natale. Ha 12 minorenni alle sue dipendenze. Il suo investimento in capitale consiste nell'acquisto di forbici e aghi, con cui i ragazzini tagliano e cuciono le rifiniture dei vestiti. "La maggior parte di questi bambini - scrivono i due reporter - soffrono di herpes per l'inquinamento dei coloranti industriali. Con gli occhi costretti sempre a fissare il lavoro degli aghi, tutti hanno malattie della vista. Alla luce del sole non possono tenere aperti gli occhi infiammati. Lamentano mal di testa cronici. Liu Yiluan, 13 anni, non può addormentarsi senza prendere 2 o 3 analgesici ogni sera. Il suo padrone dice che Liu gli costa troppo in medicinali". Se mai un padrone venisse colto in flagrante reato di sfruttamento del lavoro minorile, che cosa rischia? Una multa di 10.000 yuan (mille euro), cioè una piccola percentuale dei profitti di queste imprese. La revoca della licenza invece scatta solo se un bambino "diventa invalido o muore sul lavoro". Comunque le notizie di processi e multe di questo tipo scarseggiano. La battaglia contro lo sfruttamento del lavoro minorile non sembra una priorità per le forze dell'ordine. Tra le marche straniere Timberland e Puma sono il campione rappresentativo di una realtà più vasta. Per le opinioni pubbliche occidentali le multinazionali compilano i loro Social Reports, quei "rapporti sulla responsabilità sociale d'impresa" di cui la Nike è stata il precursore. Promettono trasparenza sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche dei loro fornitori. Salvo "scoprire" con rammarico che i loro ispettori non hanno visto, che gli abusi continuano. Diversi auditor denunciano il fatto che in Cina ora prolifera anche la contraffazione delle buste-paga, i falsi cartellini orari, le relazioni fasulle degli ispettori sanitari: formulari con timbri e numeri artefatti per simulare salari e condizioni di lavoro migliori, documenti da dare alle multinazionali perché mettano a posto le nostre coscienze. La Nike nel suo ultimo Rapporto Sociale dice delle sue fabbriche cinesi che "la falsificazione da parte dei manager dei libri-paga e dei registri degli orari di lavoro è una pratica comune". La parte delle belle addormentate nel bosco non si addice alle multinazionali. I loro ispettori possono anche essere ingenui ma i numeri, i conti sul costo del lavoro, li sanno leggere bene in America e in Germania (e in Francia e in Italia). La Puma sa di spendere 90 centesimi di euro per un paio di sneakers, gli stessi su cui poi investe ben 6 euro in costose sponsorizzazioni sportive. La Timberland sa di pagare mezzo euro l'operaio che confeziona scarpe da 150 euro. Hu Jintao, presidente della Repubblica popolare e segretario generale del partito comunista cinese, ha accolto lunedì a Pechino centinaia di top manager, industriali e banchieri stranieri venuti per il Global Forum di Fortune. Il discorso di Hu di fronte ai rappresentanti del capitalismo mondiale è stato interrotto da applausi a scena aperta. Il quotidiano ufficiale China Daily ha riassunto il suo comizio con un grande titolo in prima pagina: "You come, you profit, we all prosper". Voi venite, fate profitti, e tutti prosperiamo. Non è evidente chi sia incluso in quei "tutti", ma è chiaro da che parte sta Hu Jintao. (19 maggio 2005)

 

  By: Moderator on Mercoledì 04 Maggio 2005 22:29

La vita è dura ,sempre problemi da affrontare e risolvere ! (ANSA) - OSLO, 4 MAG - Lo spogliarello e' un'arte e, come tale, deve essere esente dall'Iva. Lo ha stabilito un tribunale norvegese. Nella causa che opponeva il Diamond Go Go Bar di Oslo allo Stato norvegese, che voleva assoggettare all'Imposta sul valore aggiunto i biglietti d'ingresso, il tribunale ha deciso che lo strip-tease rientra nella stessa esenzione di una rappresentazione teatrale, un'opera lirica o un balletto.

 

  By: Moderator on Lunedì 02 Maggio 2005 16:03

Mi scuso se può sembrare qualunquismo , ma la peculiarità italiana è questa : Ci si lamenta di camice e scarpe ed altro che ci invade dalla Cina ; ma qualcuno , come accade invece da Wal Mart , ha mai visto in Italia una scarpa o una camiciola cinese , a prezzi cinesi? Le importano , strappano la targhetta made in China , se c'è lasciano la griffe e rivendono a prezzi italiani . Ci metto la mano sul fuoco. Infatti scarpe e abiti dovrebbero calare di prezzo , invece sono raddoppiati. Sono gli stessi farabuttelli che hanno lucrato con l'euro

 

  By: XTOL on Mercoledì 27 Aprile 2005 23:23

polipolio, non ricominciamo con 'sta storia che ci ritroviamo d'accordo, eh! :-) xtol

 

  By: polipolio on Mercoledì 27 Aprile 2005 23:14

Lutrom, del lungo post tratto dal monologo di un ex grande comico, invecchiato, immalinconito e ripiegato su se stesso estrapolo solo la seguente frase, riferita a B. e a Tanzi: "Entrambi sono casi patologici di megalomania. Entrambi posseggono una grande squadra di calcio, yacht miliardari, un jet privato" notando che si potrebbe applicare anche a Cecchi Gori e ad Agnelli (pace all'anima sua) a Tronchetti (e probabilmente a molti altri) per far notare quanto sia subdolo il tentativo di parallelo. Qui da noi si dice 'ofelé fa el tò misté': Grillo era un ottimo comico, temo che sia ancora la sua dote migliore quando fa il notista politico. Purtroppo il declino dell'Italia è vero, (di molte delle invenzioni citate peraltro menava vanto Mussolini...) ma è il risultato dell'onda lunga di un malinteso egualitarismo e dell'occupazione gramsciana o clientelare (e in definitiva neo-corporativista) dei nodi dell'istruzione pubblica, del sindacato, della magistratura e del pubblico impiego cui non sono estranee proprio le culture a cui Grillo fa riferimento.

 

  By: lutrom on Mercoledì 27 Aprile 2005 19:57

Il caso Parmalat e il crepuscolo dell'Italia Speculazioni, bilanci falsi, bugie: il crollo del gigante industriale italiano è solo la punta dell'iceberg di Beppe Grillo (internazionale.it - 29 gennaio 2004) Da anni, molti segni indicavano che non conveniva investire in Parmalat. Se a me che faccio il comico questi segni sembrano così evidenti, come mai non erano evidenti alle banche internazionali, alle società di revisione, agli investitori e ai risparmiatori? Standard & Poor dava un buon rating di Parmalat fino a due settimane prima del crollo. Negli ultimi sei mesi il valore delle azioni Parmalat era raddoppiato. Deutsche Bank aveva comprato il 5 per cento di Parmalat e l'ha venduto appena prima del crollo. Davvero nessuno sapeva? Dal 2002 ho raccontato nei miei spettacoli i debiti e i bilanci falsi di Parmalat a più di centomila spettatori. Sono figlio di un imprenditore. La mia prima perplessità su Parmalat è sulla strategia industriale più che su quella finanziaria: mi colpisce la sproporzione tra la povertà del prodotto di base – il latte – e la megalomania del progetto e delle spese pubblicitarie di Calisto Tanzi. Una media azienda regionale che si propone, come diceva Tanzi, di diventare "la Coca-Cola del latte" mostra di non conoscere né il prodotto né i mercati. È come se un fabbricante di meridiane dicesse: "Voglio diventare la Rolex delle meridiane". Come si fa a dargli i propri soldi? Le caratteristiche del latte fanno a pugni con quelle della Coca-Cola, che è una miscela chimica e vegetale inventata da un farmacista, standardizzata mondialmente, prodotta in pochi enormi impianti centralizzati; la Coca-Cola ha bassi costi di produzione e alti costi di vendita perché gran parte della sua attrattiva è fondata sulla pubblicità e sulle emozioni. Il latte è il contrario della Coca-Cola: è un prodotto naturale, deperibile, locale, proviene da migliaia di produttori, ha alti costi di produzione, bassi costi di vendita, molti concorrenti. Il latte è un alimento affermato e insostituibile, è l'unica cosa che la natura produce con il solo scopo di essere un alimento per i mammiferi. I ricavi della Coca-Cola si basano su ciò che è stato creato intorno alla sua bottiglia, quelli del latte su ciò che c'è dentro la bottiglia. E questo è già perfetto, è stato ottimizzato in milioni di anni di evoluzione. Modificare una cosa perfetta vuol dire peggiorarla, oppure farla diventare una cosa molto diversa, come il formaggio o lo yogurt. Formula uno, calcio e latterie Con il latte ci sono due strade: cercare di modificarlo il meno possibile e di conservarne il massimo di proprietà per qualche giorno, oppure trasformarlo in qualcosa di diverso, che si venda per altri motivi nutrizionali – come il formaggio o lo yogurt – o emozionali, come i "novel food" inventati dal marketing. Nel primo caso riescono meglio le piccole latterie locali, spesso cooperative o comunali, di cui ci sono buoni esempi in Italia e in Svizzera. Nel secondo caso, il maggior successo lo hanno poche grandi aziende che investono molto in ricerca e marketing. In entrambi i casi i margini di guadagno sono modesti e non giustificano spese enormi di propaganda. Marlboro o Benetton possono sponsorizzare la Formula uno perché vendono prodotti con alto valore aggiunto e alto contenuto emozionale, hanno una distribuzione capillare e prodotti identici in più di cento nazioni. Ma un consorzio di latterie no, non può sponsorizzare la Formula uno come ha fatto Parmalat per anni: sono soldi sprecati. Lo stesso vale per le sponsorizzazioni di decine di squadre sportive nel mondo, tra cui quella molto costosa del Parma calcio in Italia. Questo vale anche per il jet privato intercontinentale di Parmalat, che secondo diversi giornali veniva prestato da Tanzi a vescovi, cardinali e a un ambasciatore degli Stati Uniti. Insomma c'era una grande discrepanza tra il tipo di impresa industriale e la stravagante grandezza delle sue spese. La cosa che più mi colpisce nei reportage di questi giorni è che si parla solo di soldi, mai di prodotti. Scrivono di Parmalat come di un'impresa finanziaria e non di un'industria che fabbrica prodotti tangibili, anzi mangiabili. Questo sottintende una convinzione molto diffusa, almeno in Italia: qualunque azienda, con qualunque prodotto, potrebbe generare per sempre grandi profitti purché sia in mano a finanzieri creativi e spregiudicati. Latte e merluzzi Nei miei spettacoli ho cominciato prima a parlare dei prodotti, e solo poi dei miliardi di Parmalat. Nel 2001, girando tra il pubblico in sala, tenevo in mano un merluzzo e lo immergevo in una tazza di latte chiedendo alla gente che effetto gli facesse. Mi ci aveva fatto pensare un "novel food" Parmalat. Un'imponente campagna pubblicitaria annunciava la "scoperta" del latte con gli omega-3, una miscela di grassi che prometteva effetti benefici sul sistema cardiocircolatorio. Quello che la pubblicità non diceva è che gli omega-3 sono grassi normalmente estratti dai pesci e che quel latte non era stato "scoperto", ma inventato in laboratorio, fabbricando una miscela artificiale di latte di mucca e di additivi estranei. Che fine hanno fatto quel prodotto e quegli investimenti? Gli scandali alimentari degli ultimi anni hanno fatto perdere a molti europei la fiducia nei prodotti dell'agrobusiness. Ora gli europei dovrebbero riacquistare fiducia grazie ai "rigorosi controlli" italiani della nuova Agenzia alimentare europea, che avrà sede proprio a Parma, la città di cui Parmalat è il simbolo? E chi è stato il garante di Parma in Europa? Chi ha imposto Parma come sede dell'Agenzia alimentare europea? È stato Silvio Berlusconi, che ha detto all'Europa: "Per Parma garantisco io!". Voleva come al solito giurare sulla testa dei suoi figli, ma glielo hanno sconsigliato. Tanzi e Berlusconi sono oggi i due imprenditori italiani più conosciuti nel mondo. Mi sembra che non siano famosi come testimonial dell'Italia di cui ci si può fidare. Sento ripetere da industriali e finanzieri che Parmalat è un'eccezione criminale e non rappresenta l'Italia; sento dire che ogni settore ha le sue pecore nere. Invece è vero il contrario. Tanzi, come Berlusconi, è un buon esempio della classe dirigente italiana di oggi. Entrambi sono casi patologici di megalomania. Entrambi posseggono una grande squadra di calcio, yacht miliardari, un jet privato. Prima di fondare Forza Italia la dimensione dei debiti di Berlusconi, la sua dimestichezza nel falsificare i bilanci, la sua ragnatela di società finanziarie offshore ricordavano la situazione di Tanzi. Berlusconi confidò a giornalisti come Biagi e Montanelli che l'unico modo per salvarsi era conquistare il potere politico. È qui la differenza insormontabile tra Tanzi e Berlusconi: Tanzi non avrebbe potuto fondare "Forza Lat" e salvarsi con la politica come ha fatto Berlusconi con Forza Italia. Il latte non può essere trasformato in una proposta politica, la televisione commerciale sì. La mentalità, l'ideologia, l'apparato, gli uomini e i metodi del business di Berlusconi consistono da decenni nell'imbrogliare e conquistare milioni di persone con l'immagine affascinante di una società ideale in cui tutti sono giovani e belli, annegano in un'alluvione di consumi e sono sempre allegri, oltre la soglia della stupidità. La ricetta magica? Più pubblicità, quindi più consumi, più produzione, più occupazione, più profitti, quindi di nuovo più pubblicità e così via in una spirale infinita di benessere. Questo – che era già un programma intrinsecamente politico – è stato trasformato facilmente in un programma esplicitamente politico. È bastato estendere leggermente lo spettro degli obiettivi, trovare un nome adatto a uno pseudopartito (Forza Italia) e incaricare decine dei migliori funzionari di Publitalia – la potente agenzia di pubblicità di Fininvest – di trasformarsi in commissari politici e di perseguire a tutti i costi la conquista del mercato politico. Tanzi non ha la mentalità spettacolare e le strutture di comunicazione di Berlusconi. Per questo non poteva diventare lui stesso un prodotto politico. Si limitava a finanziare il partito più forte, prima la Democrazia cristiana e poi Forza Italia. Tanzi è austero, schivo, uomo di chiesa e di pochissime parole. Lo stile era quello di un cardinale. Lo stile di Berlusconi, invece, è quello di uno showman di basso livello, da giovane cantava e raccontava barzellette sulle navi da crociera. Non ha mai smesso, nemmeno al parlamento europeo, di esibirsi e di cercare di far ridere. Il "core business" di Berlusconi è Berlusconi stesso. Ciò che ha permesso a Berlusconi di salvarsi con la politica è il cabaret, sono le sue esperienze giovanili di showman e un istinto comico di basso livello che ha grande successo tra la gente meno colta, proprio come le sue televisioni. Salvato dal cabaret Se non fosse un personaggio tragico per l'Italia, Berlusconi sarebbe il maggiore fenomeno del secolo di avanspettacolo comico italiano. Sia Tanzi che Berlusconi hanno il titolo di Cavaliere del lavoro. In Italia la stampa usa il termine "il Cavaliere" come sinonimo di Berlusconi. Oggi per fare chiarezza qualcuno dovrebbe rinunciare a quel titolo: o Tanzi e Berlusconi oppure i molti Cavalieri onesti che ci sono in Italia. Finché Berlusconi e Tanzi sono Cavalieri è inevitabile pensare ai cavalieri dell'Apocalisse. È gente come loro che sta portando l'Italia all'Apocalisse economica e civile. Quasi tutta l'Italia è una grande Parmalat, fondata più sull'apparenza e sulla falsificazione che non sulla sostanza. Come per Parmalat, pochi si rendono conto – o confessano di rendersi conto – dell'abisso che c'è tra l'immagine e la realtà dell'Italia. Per trent'anni l'instabilità politica e la corruzione hanno rallentato la modernizzazione del paese, ponendo le basi del suo attuale declino. Ma da dieci anni, da quando la Fininvest di Berlusconi è diventata il principale attore politico italiano, questo rallentamento si è trasformato in paralisi. Quasi tutte le energie delle due parti del sistema politico sono prosciugate da una parte dal tentativo di estendere il potere e l'ideologia Fininvest a tutto lo stato e a tutta la società; dall'altra dal tentativo di contrastare questo assalto egemonico. In Italia molti settori richiedono da decenni riforme profonde e urgenti: istruzione, informazione, ricerca, innovazione, tecnologia, pensioni, occupazione, distribuzione dei redditi, amministrazione della giustizia, energia, trasporti, gestione del territorio, protezione e risanamento dell'ambiente, sviluppo sostenibile. Ma da dieci anni tutto ciò passa in secondo piano, i ritardi italiani si accumulano, diventano drammatici. Il sistema Fininvest Il sistema Fininvest e il sistema Italia per certi versi sono analoghi al sistema Parmalat: molta apparenza, conti falsi, corruzione, poca qualità, futuro in declino. Parmalat aveva conti falsi, ma produce milioni di tonnellate di alimenti che generano benessere reale per decine di milioni di persone in trenta paesi. Fininvest non è una multinazionale, come Parmalat, ma una "ipernazionale". I suoi profitti provengono quasi esclusivamente dall'Italia e si basano su uno stretto legame con il sistema della politica italiana e della corruzione. La gran parte dei suoi guadagni viene dalla pubblicità obbligatoria, un'attività controversa che crea alla popolazione più danni che benefici. Più che di profitti in un mercato competitivo, si tratta di una rendita senza rischi, basata sul monopolio, sullo statalismo, sulla produzione di niente di concreto. Sono miliardi di euro che, con il sistema della pubblicità obbligatoria, Fininvest "preleva dalle tasche degli italiani" quando questi – anche quelli che non guardano le sue televisioni – comprano i molti prodotti resi più cari dalla pubblicità. Meriti e rischi ne ha pochi, perché il bombardamento pubblicitario è forzato e non è evitabile dai cittadini (altro che Casa delle libertà!), perché la televisione commerciale – privata o statale – è l'unico tipo di televisione in Italia e perché questa rendita pubblicitaria si fonda su concessioni statali di frequenze televisive ottenute corrompendo il potere politico ai tempi di Craxi. Senza queste concessioni statali, in quasi monopolio e in parte illegali, le rendite e il potere Fininvest crollerebbero. Da due anni inoltre la rendita Fininvest è ulteriormente garantita dalle centinaia di suoi uomini che hanno preso il controllo del governo, del parlamento e della televisione pubblica e che cercano ora di conquistare il controllo anche della magistratura e della banca centrale. La rendita senza rischi di Fininvest è inoltre facilitata dal fatto che molti dei settanta avvocati che Berlusconi ha fatto eleggere in parlamento usano nei processi contro Berlusconi e i suoi uomini le leggi a favore di Berlusconi che loro stessi propongono o approvano come parlamentari. Questi stessi avvocati – per esempio Pecorella, Taormina o Ghedini – sono ospiti frequenti nei talk show televisivi, dove continuano la loro difesa di Berlusconi nel "tribunale" italiano più importante, quello di milioni di telespettatori ed elettori, e spesso parlano in tv per ore senza un avversario al loro livello. Questo tipo di avvocati miliardari, star del foro, della televisione e del parlamento, rappresentano bene la concentrazione che è avvenuta in Italia del potere economico, esecutivo, legislativo e informativo nelle mani di un'unica azienda, la Fininvest. Grazie a una legge di Berlusconi – valida retroattivamente anche per i suoi falsi – il falso in bilancio è stato quasi completamente depenalizzato. Così è restato o è diventato una pratica diffusa non solo per aziende italiane come Parmalat, Fininvest e altre, ma anche per il governo. In Italia il vero rapporto tra deficit e pil nel 2003 non è inferiore al 3 per cento, come dichiarato dal governo, ma sarebbe superiore al 4 per cento se la contabilità creativa del ministro Tremonti – un ex commercialista di Berlusconi – non avesse contabilizzato per il 2003 gli introiti derivanti da enormi condoni fiscali ed edilizi e da vendite e alienazioni di beni dello stato che andrebbero distribuiti su molti anni. Quasi tutti sanno che questa contabilità è una truffa, ma fanno finta di non vedere. Come fingevano di non vedere la realtà di Parmalat. Un paese al crepuscolo Se la situazione reale di Parmalat, di Fininvest e dello stato italiano non è all'altezza delle apparenze e della propaganda, la situazione dell'economia e della società italiane – lo dico con tristezza e rabbia – non è migliore. Purtroppo la realtà dell'Italia non è all'altezza dell'immagine che la Ferrari e Armani diffondono nel mondo. L'Italia è in declino rapido, è un paese al crepuscolo. È per questo che il mio spettacolo si chiama Blackout e io entro in scena in una sala al buio, con in mano un candelabro. Faccio l'attore comico, il declino dell'Italia lo percepisco principalmente con gli occhi e le orecchie: vedo la pubblicità e la volgarità dilagare ovunque nel paesaggio, nei mezzi d'informazione, nella vita quotidiana. Dove prima c'erano capannoni industriali, oggi ci sono lunghe file di cartelloni pubblicitari; ritraggono spesso merci che una volta erano prodotte in quei luoghi ma oggi sono importate. Vedo il degrado dell'ambiente e delle grandi città, sento il traffico e il rumore aumentare ovunque. Sento la gente: avvilimento, mancanza di prospettive, ignoranza e disinteresse per ciò che succede nel resto del mondo, egoismo, cattiveria e volgarità crescenti, chiusura nei propri affari e nella famiglia, declino del senso civico e della solidarietà. Anche se come artista avrei il diritto di farlo, non mi baso solo sulle mie impressioni. Io – attore vero – non voglio fare come Berlusconi – statista falso – che parla in televisione nascondendo i fatti e le statistiche, evocando sogni, promesse, miracoli e rivoluzioni. Mi piace documentarmi con dati e cifre nudi e crudi, senza lifting. Ai pochi stranieri che volessero ancora investire in Italia e ai molti italiani che volessero votare di nuovo per il sistema Fininvest-Forza Italia consiglio due piccoli libri: Il mondo in cifre 2004, una sintetica raccolta di statistiche internazionali curata dall'Economist (e pubblicata da Internazionale) e Il declino dell'Italia, un inquietante libro del giornalista economico Roberto Petrini (pubblicato da Laterza). Spendendo meno di trenta euro in questi due libretti, chi si volesse documentare sul crepuscolo italiano può forse schivare ulteriori guai e investimenti sbagliati. Se parlo di crepuscolo dell'Italia, non mi baso solo sulle mie impressioni del presente, ma anche sugli indicatori che ci segnalano il futuro del paese. E questi indicatori mettono tristezza. L'Italia sta diventando un ex paese industriale che ha smantellato o sta smantellando buona parte della sua industria, una volta ben piazzata nel mondo: chimica, farmaceutica, informatica, elettronica, aeronautica, forse presto anche automobilistica. L'Italia è il paese con più persone anziane al mondo e con la minore fertilità tra i paesi industrializzati: da anni le nascite sono meno delle morti. I nostri livelli di istruzione, di cultura, di ricerca scientifica e tecnologica sono tra i più bassi in Europa. Tra i paesi industriali abbiamo una delle più basse percentuali di laureati e il più alto numero di maghi, pubblicitari e guaritori. Invece di investire e lavorare per il futuro stiamo consumando allegramente le ultime risorse che ci rimangono. Nella quota delle esportazioni mondiali in dieci anni siamo scesi dal 5 al 3,6 per cento. Nelle esportazioni mondiali di prodotti tecnologici stiamo scomparendo con un piccolo 2,5 per cento, mentre Francia e Germania sono al 6 e all'8 per cento. Esaminando la posizione dell'Italia nel contesto internazionale non c'è da stupirsi se siamo il paese industriale che attira meno capitali stranieri. Gli investimenti delle multinazionali in Italia sono diminuiti dell'11 per cento nel 2001, del 44 per cento nel 2002. Per bocca di due dei suoi ministri più influenti il governo italiano afferma che l'Unione europea è dominata dai "nazisti rossi". Uno di loro dice che l'Europa è "forcolandia", che con il fallimento della costituzione europea a Bruxelles "siamo riusciti a fermare l'impero comunista che stava tornando", che "l'euro è la rapina del millennio. L'hanno inventata i massoni". Se foste un investitore straniero mettereste i vostri soldi in un paese governato da gente così? Indicatori desolanti Se osserviamo la posizione dell'Italia in alcune classifiche internazionali può sembrare quella di un paese fortunato: settimo pil al mondo, quarto posto tra i grandi paesi per numero di automobili e di telefonini per abitante. Ma se analizziamo gli indicatori che danno un'immagine più completa dell'Italia e soprattutto delle sue opportunità per il futuro, allora siamo al crepuscolo. In una ventina dei principali indicatori internazionali che delineano il futuro e la dinamica di un paese, l'Italia si trova tra il ventesimo e il quarantesimo posto. Gli stati che più spesso ci accompagnano in queste classifiche sono paesi in via di sviluppo (Colombia, Namibia, Sri Lanka, Cina, Brasile), paesi dell'Europa dell'est in transizione (Slovenia, Estonia, Slovacchia) o nel migliore dei casi i meno sviluppati tra i paesi europei (Spagna, Portogallo, Grecia). La differenza preoccupante tra l'Italia e questi paesi è che loro da anni stanno salendo nelle classifiche internazionali, noi invece stiamo scendendo. Ogni anno ci incontriamo con loro sui pianerottoli della scala internazionale: li vediamo salire e noi scendiamo di un'altra rampa. Ho riassunto in una tabella una ventina di indicatori internazionali che ci danno un'idea preoccupante della realtà italiana e del suo futuro. Fine di un'era È incredibile la profondità del declino italiano. Nel rinascimento siamo stati un faro della cultura, della scienza, dell'innovazione e della finanza in Europa. Nella musica e nella tecnica bancaria ancora oggi molti termini tecnici in tedesco e in inglese sono parole italiane (sonata, adagio, fortissimo oppure aggio, incasso, sconto, lombard) a testimonianza dei secoli in cui eravamo il paese di riferimento in quei campi. Più tardi abbiamo inventato l'elicottero, l'aliscafo, il batiscafo, il telefono, la radio. Oggi però non inventiamo quasi niente, l'Italia ha meno premi Nobel del solo Politecnico di Zurigo, il nostro export si basa su prodotti di bassa tecnologia che presto vedranno la concorrenza dei paesi emergenti, mentre nei prodotti ad alta tecnologia non possiamo competere con le nazioni più avanzate. I nostri manager in compenso vogliono orientarsi per i loro stipendi agli Stati Uniti e per quelli dei loro dipendenti alla Bulgaria o alla Cina. Il numero dei laureati italiani che lavorano all'estero è sette volte maggiore del numero dei laureati stranieri che lavorano in Italia. Per decenni buona parte della grande industria e dell'export italiano hanno prosperato grazie alla benevolenza dello stato e dei partiti e alle periodiche svalutazioni della lira. Oggi che questo non è più possibile, il declino italiano si accelera. Paghiamo il prezzo delle modernizzazioni che non abbiamo fatto negli ultimi decenni. Al crepuscolo industriale, tecnologico e culturale dell'Italia si aggiunge il declino sociale con un rapido aumento della ricchezza dei ricchi e l'estensione e l'approfondimento della povertà. Nella disuguaglianza dei redditi abbiamo superato perfino gli Stati Uniti: in un decennio (1991-2001) il 20 per cento degli italiani è diventato più ricco, l'80 per cento più povero. Il reddito del decimo di italiani più ricchi è cresciuto del 12 per cento, mentre il reddito del decimo di italiani più poveri è sceso del 22 per cento. Otto milioni di italiani vivono sotto la soglia di povertà e altri quattro milioni vivono appena sopra. Molti di questi poveri e quasi poveri hanno un lavoro o due o tre, ma non gli bastano per vivere decentemente. Lo stipendio medio di un tranviere di Zurigo (5.500 franchi) è quasi il triplo di quello di un tranviere di Milano, ma il costo della vita e dei biglietti del tram a Zurigo è solo il 50 per cento più alto che a Milano. Stipendi reali sempre più bassi e lavori sempre più precari fanno crescere la conflittualità selvaggia – come quella dei guidatori di tram e autobus – che frena ulteriormente la qualità della vita e lo sviluppo del paese. La resa della sostanza all'apparenza Il declino della Fiat è forse uno dei migliori indici del declino italiano: dieci anni fa Fiat vendeva in Italia un'auto su due, oggi una su tre. L'immagine più forte del crepuscolo italiano è stata per me quella della carovana di limousine scure che in una sera del 2002 – al culmine di una crisi della Fiat che sembrava mortale – ha portato l'intero stato maggiore della Fiat a un consulto drammatico, non al ministero dell'industria o delle finanze ma nella grande villa di Arcore di Silvio Berlusconi, padrone di Fininvest e capo del governo. Le immagini del telegiornale sembravano quelle di un film sulla mafia, quando avviene un regolamento di conti e un cambio della famiglia al vertice del potere. Era la resa di ciò che resta dell'Italia industriale alla nuova egemonia, all'Italia della pubblicità e della televisione commerciale. La resa della sostanza all'apparenza. Non è un caso che l'industria che ha conquistato il potere politico in Italia non fabbrichi cose ma sogni, non venda merci ma promesse.

 

  By: Mr.Fog on Venerdì 22 Aprile 2005 11:02

Direi...interessante. Partiti con il 50% ora siamo al 120%....

 

  By: lutrom on Lunedì 18 Aprile 2005 16:40

E' di nuovo fuga dal Mezzogiorno da Repubblica.it I trasferimenti verso il settentrione crescono a ritmi da anni ཮ Quasi il 50% dei cambi di residenza interregionali ha origine nel Meridione Boom dell'emigrazione verso Nord E' di nuovo fuga dal Mezzogiorno Nei dati Istat sull'ultimo decennio riemerge un fenomeno che sembrava superato di MARCO PATUCCHI (15 aprile 2005) ROMA - Non sono quelli disperati e malinconici, con le valigie tenute insieme dallo spago. Oggi si tratta per lo più di giovani con laurea o diploma: navigano su Internet, non disdegnano le lingue straniere e sono alla ricerca di un luogo dove sia possibile esprimere il proprio talento. A loro, come sempre, si aggiungono le forze lavoro meno qualificate, con la stessa speranza di trovare altrove quello che la loro terra non gli può dare. Eccoli i nuovi emigranti italiani, giovani e meno giovani che sempre più numerosi hanno ricominciato a lasciare il Sud per cercare lavoro al Nord. "Le migrazioni interne dal Mezzogiorno e verso l'Italia centro-settentrionale - spiega l'economista Nicola Rossi, deputato dei Ds ed ex consigliere economico del governo D'Alema - dopo essersi pressoché annullate alla metà degli anni Ottanta si sono attestate intorno a poche decine di migliaia di unità per poi riprendere a crescere significativamente a partire dalla metà degli anni Novanta e superare le 70mila unità. Un livello molto prossimo a quello registrato sul finire degli anni Cinquanta e che non era stato osservato fin dalla metà degli anni Settanta". Sono i dati più recenti dell'Istat a dare sostanza statistica a un fenomeno che, spesso con intenti strumentali, è stato al centro della campagna elettorale per il voto regionale. Si tratta delle cifre sui trasferimenti di residenza in Italia, elaborate alla fine del febbraio scorso e relative al decennio 1993-2002: ebbene, l'Istat rileva "la tendenza nell'ultimo decennio alla ripresa delle migrazioni di lungo raggio lungo le direttrici tradizionali. Tra il 1993 e il 2002, infatti, i trasferimenti tra regioni diverse sono aumentati dellƇ,8% annuo, a fronte dello 0,7% dei trasferimenti intraprovinciali e dellƇ% fatto registrare da quelli tra provincie della stessa regione". I numeri degli ultimi dieci anni, oltre a confermare la prevalenza degli spostamenti da Sud verso Nord (97mila il saldo netto annuo, isole comprese, nel ྙ salito a 130mila nel 2002), evidenziano che si è decisamente rafforzata l'emigrazione verso le regioni del Nord-est (con un aumento di oltre il 50% di iscritti da altre regioni) e che è cresciuto in misura sostenuta il numero dei cancellati dalle regioni meridionali e dalle isole (+25% circa). "In termini assoluti - rileva ancora l'istituto di statistica - quasi il 45% dei trasferimenti interregionali (151mila, pari al 44,8%) ha origine nel Mezzogiorno: nonostante l'accresciuta importanza del ruolo del Nord-est, questi flussi si distribuiscono prevalentemente nelle regioni del Nord-ovest (32,1% del totale dei trasferimenti dal Meridione), ma anche nel Nord-est (27,4%) e nel Centro (26,5%). Solo il 14% dei cancellati dalle regioni del Sud rimane nel Mezzogiorno". Secondo Nicola Rossi, siamo di fronte a fenomeni migratori di natura diversa rispetto a quelli intervenuti nel dopoguerra: "Emigrano, in particolare, i più giovani, fra i 20 e i 35 anni, ma soprattutto emigrano in misura crescente i meridionali con i livelli più elevati di istruzione. Sono loro, accanto ai loro coetanei che rimangono nel "sommerso" al Sud, i primi sintomi di malfunzionamento di un mercato del lavoro che ben pochi vantaggi ha tratto dalle scelte di politica regionale degli ultimi anni". Una ripresa delle emigrazioni Sud-Nord riconosciuta anche da Marco Vitale, economista e consulente aziendale, che però privilegia una chiave di lettura meno pessimistica di Rossi: "Il fatto che i giovani, e soprattutto i più intraprendenti, vadano a cercare esperienze e fortuna in altri luoghi non è sempre negativo. Molti di loro non se ne vanno solo alla ricerca di uno stipendio, ma come rifiuto di una società o, meglio, di una classe dirigente che non amano. Cercano una società più libera, più meritocratica, meno corrotta, meno politicizzata, meno violenta. E non mancano - conclude Vitale - giovani meridionali che, fattesi le ossa altrove, ritornano preparati a svolgere compiti dirigenziali nel Mezzogiorno".

 

  By: Moderator on Lunedì 04 Aprile 2005 23:37

Penso che ogni religione pensi non solo di essere progressista ma rivoluzionaria in assoluto. Dal punto di vista spirituale nulla da obiettare , ma dal punto di vista di ciò che è misurabile non c'è mai stato un vero progresso economico-sociale se non con i vili metodi della politica ed economia terrena. Restauratore intendo di una Chiesa tradizionale in contrapposizione alla ventata di novità di Giovanni 23°. Quello dell'essere portati a spalla può essere solo liturgia e tradizione non malevola . Per la monarchia essendo la Chiesa un pò una monarchia , e che funziona da 2000 anni ,niente da stupirsi se un rappresentante a quel livello la trovi positiva ; ma in fondo l'Inghilterra non ha la monarchia? e anche la Svezia e l'Olanda. .Può essere che per quanto bizzarrie del passato non siano in contrasto con il progresso.Noi siamo sotto l'influenza del voto post-guerra nel senso di demonizzarla (naturalmente io non la preferisco). Quindi i credenti di ogni religione si sentono in realtà rivoluzionari ,solo che la mia critica è rivolta al fanatismo un pò idolatra e troppo ad personam che sta venendo a galla in questi giorni ,accompagnato da una certa tendenza alla reazione integralista alla richiesta di mettere la cosa in un contesto più ragionevole;tant'è che non si osa neanche parlarne ,come se si fosse in un paese dell'est o musulmano. Comunque anch'io ho da campà e mi fermo qua ,visto che mia moglie ha uno zio vescovo ed un bisnonno (Toniolo)che ha in corso il processo di beatificazione per farlo santo .

 

  By: Andrea on Lunedì 04 Aprile 2005 18:58

Norton : Giovanni XXIII era poi quello che diceva, alla vigilia delle votazioni, che per i popoli una monarchia era preferibile a una repubblica. O che aiutava Costanzo Ciano nei suoi interessi (mica filantropici) in Bulgaria. O che si faceva incoronare, come da tradizione, e trasportare sul trono. Non discuto l'opinione ma credo che si possano trovare pecche e altro nell'operato di entrambi. E parlare di papi progressisti o conservatori mi sembra piu' che altro una perdita di tempo. Quando a problemi molto attuali e "moderni" si cerca di dare risposta tirando fino alla rottura quanto scritto in una raccolta di allegorie di quasi 3000 anni fa, temo che sia impossibile giustificare l'aggettivo "progressista".

 

  By: Moderator on Lunedì 04 Aprile 2005 16:00

Riguardo al Papa è stato detto tutto ma forse è strano quando su un sito si parla di tutto ma non dell’evento principale . Personalmente penso che questo Papa è stato coerente , è stato coraggioso nel senso che non si intimidiva a dire la sua (che spesso è diversa dalla mia),ha svolto un ruolo politico positivo rispetto al comunismo reale,si è impegnato fino all'ultimo in modo totale , non ha nascosto la malattia ,come parte della vita umana da non nascondere , ma.... è figlio del 1900 ed ha alimentato un vero e proprio culto della personalità ,come quello di tanti del secolo trascorso. Perchè specie negli ultimi anni quei bagni di folla quelle apparizioni mediatiche senza molto contenuto erano solo culto della personalità ,niente a che fare con la religione. C'era il Papa e non la religione. Solo radunate oceaniche da adunata di prima metà novecento,con qualche generica esortazione e via, con folle che gli porgono i neonati da benedire . Anche in Italia le sue udienze erano senza contatto vero e senza ascoltare , appariva. Questa non è religione, come la penso io. Posso sbagliarmi. Questo è un grande ed evidente caso di culto , ma della personalità. Come posizioni sul sesso ,sulla contraccezione e Aids(dire che è una malattia dell’anima non mi può trovare d’accordo), sull’economia ,sul pacifismo , personalmente le trovo pre-democratiche ,ma le posso capire dal suo punto di vista e le rispetto come diverse . Come culto della personalità invece non l’ho mai apprezzato e trovo che in particolare in questi ultimi giorni tramite i media si sia sprofondati nell’idolatria. Sia la religione che la morte sono una cosa seria e un fatto privato ,e ora come informazione c’è un’invadenza un po’ esagerata . Una persona seria ,coerente , che volontariamente o involontariamente ha alimentato questo acritico culto della personalità , circondata da una moltitudine di gente , giornalisti e media in prostrazione idolatrica un pò disgustosa. Non è mia intenzione offendere né il Papa né chi ne vede solo i lati positivi (li capisco benissimo) , ma in questi giorni si vede come un’ondata di integralismo,come un bisogno di idoli ;chi non è conforme viene aggredito e insultato come fossimo in un paese sciita .La natura spiacevole integralista dei cattolici purtroppo riesce fuori alla faccia del predicare la tolleranza . Per dire sinceramente la mia impressione questo papa lo vedo come integro , ma un vero restauratore , niente di rivoluzionario .Il suo pacifismo è arcaico e pre-democratico ,la pace viene prima della libertà e della democrazia.Così dovremmo stare ancora sotto i nazisti .Presentarsi poi in uno stato sovrano e dire che i carcerati (persone che hanno violato le regole comuni e che vengono sanzionate) vanno liberati non s’è mai sentito dire ;anche perché c’è scritto ,nelle dottrine che bisogna VISITARE e CONFORTARE i carcerati , non liberarli. In realtà si considerano ancora superiori alle leggi dello stato , tale e quale ai capi religiosi musulmani. Senza offesa per nessuno mi piaceva di più Giovanni 23°.