riceviamo e pubblichiamo questa dettagliata e comprensiva analisi di Maurizio Giuliani -----------------Maurizio Giuliani TrendOnline ------------------------ Le cause del collasso dell’economia USA. Nei tre mesi precedenti, l’economia americana è entrata in una fase delicatissima nella quale stanno interagendo tre forze principali, tutte molto negative, che sino ad ora sono state responsabili del crollo del mercato finanziario e di una situazione macroeconomica instabile e attualmente non ancora prevedibile. Infatti continuano le dispute economiche su quale forma possa assumere nei prossimi mesi o anni la curva economica americana: se a V, se a W,se a U oppure, la peggiore a L. Tuttavia queste lettere, destinata alla speculazione accademica risultano essere fuori luogo se si considerano i tre fattori che stanno esercitando una pressione considerevole sulle forze economiche. 1) La prima considerazione è volta al collasso delle importazioni, infatti attualmente, e probabilmente assumerà una forza sempre maggiore con il disgregarsi della situazione economica, gli Stati Uniti non sono in grado di produrre beni e servizi per mandare avanti il motore economico in modo autonomo: il dollaro forte ha comunque contribuito a creare questa situazione. Le imprese americane trovavano molto più vantaggioso far produrre all’estero la maggior parte dei loro prodotti (il cosiddetto outsourcing). Nello stesso tempo molti stati stranieri tra i quali Canada, Giappone, Cina, Messico ed Europa, i quali hanno ricevuto le commesse di produzione dei beni americani li rispediscono proprio negli USA. 2) Il secondo fattore, non meno importante, riguarda la forza lavoro, a partire dal mese di ottobre del 2001, vi è stata una vera e propria emorragia di posti di lavoro, è sufficiente sfogliare i giornali per valutare l’entità di questo processo: solo WorldCom ha tagliato ben 15.000 dipendenti, la Daimler-Chrysler oltre 26.000, General Electric ed Honeywell 75.000, e la lista potrebbe andare avanti ad oltranza. Questo fattore avrà delle sicure ripercussioni sulla spesa per consumi, che è il motore trainante dell’economia americana. 3) Il terzo processo di distruzione deriva da un’iperinflazione nei prezzi dell’energia, causata in larga misura dalla deregolamentazione dei servizi e dall’estrema concorrenza sui prezzi delle imprese operanti, in aggiunta a ciò si sono verificati fallimenti di portata rilevante nelle aziende del settore, il primo tra tutti è stato Enron. Ognuno di questi fattori, preso singolarmente, di per sé potrebbe causare effetti molto negativi sull’economia in generale, e si consideri solamente il fatto che negli Stati Uniti sono presenti tutti e tre questi fattori e si stanno manifestando con estrema virulenza. Se poi si aggiunge un drammatico calo della fiducia dei consumatori e soprattutto degli investitori, pesantemente penalizzati dalle truffe contabili delle aziende e dalla poca trasparenza dei bilanci societari, il mix esplosivo è pronto a scoppiare. A monte di questa situazione si possono ricercare le cause nella progressiva distruzione dei settori fondamentali dell’economia quali quello agricolo e quello industriale a tutto vantaggio di quello dei servizi, della tecnologia delle informazioni e della finanza, che creano un numero molto limitato di posti di lavoro, e possono continuare a produrre ed a generare profitti anche con una manodopera molto limitata. Tra il 1978 ed il 1980 Jimmy Carter, Presidente degli USA, ha avviato un processo di deregulation per i settori delle linee aeree, le ferrovie, l’industria automobilistica pesante, con risultati poco incoraggianti; e l’analogia salta subito all’occhio con il settore energetico. Nel 1982, sotto Reagan, è stato approvato il piano di liberalizzazione del settore bancario, dando così il via alla speculazione in derivati, junk bond ed altre forme di investimento particolarmente rischiose ma redditizie. Queste concatenazioni di cause hanno creato il supporto per la smaterializzazione dell’economia, portando direttamente gli Stati Uniti al primo processo di distruzione dell’economia. I dati relativi alla produzione industriale parlano da soli: nel 2001 la produzione di acciaio negli Stati Uniti è crollata del 16% rispetto all’anno precedente, la produzione di motori per veicoli è scesa del 17% nel 2001 rispetto al 2000, la produzione di veicoli pesanti e di sport utility vagon è letteralmente crollata del 30.6%, sempre rispetto al 2000. La riduzione dei posti di lavoro è iniziata nel luglio del 2000, e, da allora, sono stati persi ben 300.000 lavoratori, e si deve considerare ancora il fatto che oltre i tre quarti di questi sono stati persi negli ultimi sei mesi. Nel settore dell’agricoltura, nel 1980 esistevano circa 26.000 fattorie indipendenti e circa 11.000 trattori ed altri macchinari; oggi, per ognuna di queste due categorie (fattorie e macchinari per l’industria), gli USA ne producono appena la metà. Per fronteggiare questa crisi il presidente della Federal Reserve ha attuato una politica di taglio dei tassi di interesse molto drastica: 1% in meno ogni mese, fino a giungere all’attuale 1.75%, livello che da oltre 40 anni non veniva raggiunto. Ma a livello macroeconomico nulla è successo. Sembra che il mago della FED abbia perso il suo leggendario potere. La deregulation nel settore dell’energia ha causato dei veri e propri disastri, infatti, prima del 31 dicembre del 2000 (data della deregolamentazione del settore), un contratto a lungo termine per la fornitura di energia elettrica, non derivante dallo scambio energetico, veniva a costare all’utente finale 30 dollari per megawatt all’ora (il megawatt è un milione di watt); con il fallimento di alcune aziende energetiche avvenuto a causa della liberalizzazione del settore, il prezzo del megawatt per ora è schizzato a 300 dollari per ora, che implica un incremento di circa il 1.000%. L’energia elettrica non è un futures, e non deve essere trattato e scambiato come tale, è impensabile fare del trading sull’energia. Il settore necessita di impianti, infrastrutture, uomini; l’energia è un prodotto che è in grado di determinare il tasso di crescita di una nazione, l’energia deve essere regolamentata e controllata dallo Stato o comunque da enti istituzionali. Un’altra tegola che sta per cadere sulla testa delle imprese è quella del prezzo del petrolio, se l’energia elettrica è importante per tutto l’apparto industriale, il petrolio è di vitale importanza per il suo funzionamento. Il prezzo del West Texas Intermediate (WTI, l’equivalente americano del Brent) è passato dai 12-13 dollari per barile nel 1998 ai 25-27 dollari per barile attuali. Le ripercussioni sull’inflazione non posso tardare a manifestarsi, l’aumento del greggio implica un aumento di ogni prodotto trasportato su gomma, dai cereali ai computer, l’aumento del prezzo della plastica e quello dei trasporti in generale. La deregulation del settore energetico ed il conseguente trading energetico (la possibilità di acquistare energia in uno Stato dove costa meno e rivenderla in uno dove costa di più) ha indotte molte aziende a contrarre prestiti per circa 12 miliardi di dollari, e proprio parte di questi prestiti hanno causato il fallimento della Enron. Ed è molto probabile che molte altre società la seguiranno a breve, poiché la maggior parte di queste aziende non sono più in grado di ripagare il debito, profuso da banche come Wells Fargo, Citigroup, J.P Morgan Chase e Bank of America, ed altre tedesche e francesi oltre a fondi pensione ed assicurazioni. Le implicazioni di un fallimento a catena potrebbero essere disastrose. Si consideri il fatto che lo Stato della California ha preso 400 milioni di dollari dalla tesoreria del Los Angeles Water District (l’azienda fornitrice di acqua) e li ha utilizzati per acquistare energia elettrica per poi rivenderla ad un costo di molto inferiore alla Southern California Edison ed alla Pacific Gas & Electric (società di erogazione di energia elettrica californiane); ciò dimostra come lo Stato della California sia soggetto, anzi soggiogato, dalle politiche di prezzo determinate dalle società private quali Duke Power e dalla Reliance. Inoltre, recentemente, lo Stato della California ha dovuto emettere un prestito obbligazionario di 10 miliardi di dollari per acquistare l’energia elettrica e rivenderla a prezzi più bassi alle due società erogatrici ed è chiaro che i soldi necessari a ripagarlo non potranno derivare dalla vendita di energia; le implicazioni potrebbero essere devastanti, se non si ritorna immediatamente ad un controllo da parte dello Stato di questo settore industriale, si verranno a creare situazioni simili in tutti gli altri stati degli USA, con conseguenze importanti sull’inflazione. La California è uno dei primi stati a sperimentare “negativamente” la de-industrializzazione, e ciò avrà effetti anche su altri settori industriali, in particolare l’agricoltura, infatti l’irrigazione dei campi necessita di molta energia elettrica, ed immaginata cosa può succedere quanto il prezzo dell’energia sale in modo così repentino e drastico: semplicemente non si può più pagare ed allora l’incremento dei prezzi si ripercuote necessariamente sulla produzione che viene tagliata fino a raggiungere il nuovo punto di equilibrio. Stesso discorso per gli ospedali che necessitano dell’energia elettrica per far funzionare tutti i macchinari, se questa inizia a raddoppiare di prezzo, il costo delle polizze assicurative aumenterà di conseguenza, innescando un altro processo di creazione di inflazione. Con questo processo distruttivo di de-indistrializzazione, l’America si trova con le spalle al muro a dover importare molti più beni di quanti ne produce: ma come vengono pagate le importazioni? Con i dollari americani. E gli Stati esportatori ricevono i dollari americani e li reinvestono nel mercato USA, sia sotto forma di investimenti produttivi sia nel mercato azionario ed obbligazionario, continuando a mantenere in vita la bolla speculativa, che, per inciso, non è ancora scoppiata del tutto. Gli Stati Uniti dipendono dalle importazioni, pagano queste importazioni con i dollari che vengono poi reinvestiti negli Stati Uniti e verranno dunque riutilizzati per pagare il prossimo ciclo di importazioni, creando così un circolo vizioso e molto pericoloso; a questo punto, se la fiducia degli investitori (sia americani m soprattutto esteri) inizia a vacillare ed il dollaro perde di valore nei confronti della altre valute mondiali, si viene a creare un disequilibrio che potrà generare un devastante collasso del sistema finanziario internazionale. Qualunque Stato che abbia un 20% di esportazioni verso un altro possiede un’economia dipendente in modo significativo; si consideri ora che l’Indonesia esporta il 19.2% dei suoi prodotti verso gli Stati Uniti, la Corea del Sud il 20.2%, la Thailandia il 24.5%, l’Europa il 25%, la Malesya il 25.4%, Taiwan il 29.0%, il Giappone il 31.2%, le Filippine il 33.7%, la Nigeria il 38.8%, la Cina il 41.9%, il Messico circa l`85% ed il Canada l`83%. Se la bolla speculativa dei mercati finanziari sta tuttora scoppiando e se gli investitori perderanno la fiducia nel mercato americano, i dollari che escono dagli Stati Uniti non ritorneranno più sotto forma di investimenti e non potranno più essere utilizzati per il prossimo ciclo di importazioni, ciò porterà inevitabilmente al collasso dell’economia americana, ma non solo, verranno trascinati nel baratro anche quei Paesi dove le esportazioni superano il 30%, con chiare ripercussioni sia a livello sociale che politico. Alcuni analisti ed economisti stimano che il pericolo del collasso è reale ed il crollo del dollaro seguirà a ruota, con perdite di circa il 40% del suo valore. Con il crollo del dollaro salterà in aria tutto il sistema finanziario e creditizio del mondo, infatti tute le Banche Centrali possiedono dollari come valuta rifugio. La situazione si presenta dunque molto grave, sarà necessario intervenire con fermezza soprattutto sui prezzi dell’energia, revocando la deregulation e reintroducendo il controllo da parte di enti statali o parastatali, inoltre il recente calo del dollaro dovrà necessariamente essere tenuto sotto stretto controllo, la soglia massima di tolleranza può essere stabilita intorno a 1.15 contro euro, se la dovesse sfondare i pericoli del collasso si faranno sempre più reali. ---------------------------------------------------------------------- risposta -------------------------- Il collasso c'è, ma della borsa non dell'economia, perchè finora le stime sono di una crescita sul 3% (chi dice 3.5% come la FED e chi dice 2.4% come i pessimisti ) del PIL USA, la disoccupazione è sotto il 6% di nuovo e anche i dati aziendali delle società ad es chimiche che sono quelle più legate al ciclo economico sono di aumenti di fatturato e di ordini E' giusto preoccuparsi che i livelli di indebitamento del consumatore americano siano troppo alti, ma i PREZZI a cui sono i titoli azionari ORA scontano già una recessione questo inverno. Non scontano una crisi di sistema e depressione, ma una recessione sì. Bene, se non c'è nessuna recessione i listini risaliranno molto. Se invece sta arrivando una crisi generale di sistema economico con fallimenti a catena e sistema bancario in crisi, cedimento del dollaro di un altro 20-30% ecc... allora le borse scendono ancora. Ovvio che la borsa anticipa in buona parte questi sviluppi, ma la borsa spesso anticipa cose che non esistono affatto, come nel 1999-2000 anticipava un boom che non esisteva Edited by - gz on 7/25/2002 16:36:35