La Soluzione Migliore E' Una Società Americana - Moderatore
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By: Moderatore on Lunedì 19 Gennaio 2004 16:32
----------------^meglio gli USA offshore#www.corriere.it/edicola/economia.jsp?path=TUTTI_GLI_ARTICOLI&doc=PACI2^------------------
Lasci stare i Caraibi, hanno una pessima reputazione». Janson Lotery non ha dubbi: «Se fa business in Europa e nel Far East, ma non negli Usa, la soluzione migliore è una società americana.
Non nel Delaware, troppo conosciuto, ma a Washington D. C.: è la capitale, ha una rispettabilità e zero tasse su società di non residenti. Per gestirla propongo l’isola di Madeira, e un ufficio a Londra. Il conto corrente? Dove vuole, ma l’Isola di Man è impenetrabile. A rendere operativa la società basta una settimana, per il conto corrente qualche giorno di più». Per mettere in moto Lotery e il suo giro del mondo in 90 parole basta chiedergli quale sia la soluzione migliore per evitare le tasse italiane. Sia nel caso di una finanziaria, sia per una società di trading che venda - ad esempio - progetti, design di moda, software e oggetti d’arredamento nell’Unione europea.
Domanda posta telefonicamente partendo dalla pubblicità pubblicata su The Economist dall’Sfc group, di cui Lotery è «senior consultant». La società, attiva dal 1979 pubblicizza il suo sito Internet come uno tra i primi 30 siti finanziari raccomandati da Ft International Magazine . Lotery è chiarissimo anche quando dice che per mettere in piedi la società basta «compilare due moduli che mando per email , una fotocopia del suo passaporto e siamo in affari. Venire a Londra? Non serve. La maggior parte dei miei clienti non li ho mai visti».
L’illusione che una società ai Caraibi o in uno dei paradisi fiscali sparsi per il mondo potesse tradursi nell’obbligo di una vacanza resta dunque delusa. D’altronde l’ex direttore finanziario di Parmalat, Fausto Tonna, l’ha detto: non è mai stato a Cayman.
Comunque, l’email di Lotery arriva in pochi minuti e il questionario proposto è tra i più completi e articolati tra quelli ricevuti da CorrierEconomia durante il suo viaggio tra paradisi fiscali e società offshore. Al punto da richiedere i contatti di due persone che possano fornire referenze sull’onestà del beneficial owner , ovvero del proprietario reale della società, il cui nome naturalmente non comparirà su alcun documento ma che potrà gestire i conti bancari via Internet.
Ultimo dettaglio, i costi: mettere in piedi e gestire lo schema Washington D. C.-Madeira-Londra-Isola di Man costa 2.715 sterline il primo anno (3.938 euro circa) e 1.890 sterline (2.741 euro) negli anni successivi. Una cifra elevata se confrontata alle offerte che si trovano sul web. Una ricerca alla voce «offshore companies» produce oltre un milione e trecentomila contatti: una vera e propria giungla dove c’è di tutto, in termini di offerta geografica, di tipologia di società e di costi. Si va dai 1.900 euro proposti da uno studio legale di Cipro, che in vista della sua adesione all’Ue ha riformato il sistema fiscale portando le tasse al 10%, ai 99 dollari (79 euro), per aprire una società a Nevis, nei Caraibi. Se si restringe il campo a Cayman, le cui attrattive sono sole, mare, zero tasse e (secondo il web), due anni di galera per chi dovesse diffondere dati e informazioni sulle società, i contatti diventano 19.500.
A testimonianza che il fenomeno offshore nasce storicamente dalle colonie britanniche è proprio dall’Inghilterra e dalle ex colonie che le risposte arrivano in poche ore e con un elevato livello di precisione. Quando però si passa dall’email al telefono, in molti casi a rispondere sono operatori non in grado di fornire consigli. «Non saprei, se le interessa di più la riservatezza e anche spendere molto poco l’ideale sono i Caraibi. Per esempio Nevis, le British Virgin Islands o Belize», suggerisce una voce femminile al numero della Electronic Financial Services, sul cui sito si offre l’apertura online di società in una quarantina di Paesi: da Anguilla, un’isola nei Caraibi dove registrare una società costa 749 dollari (596 euro), all’United Kingdom dove costa 320 sterline (464 euro), e se la società posseduta da un non residente può non pagare tasse.
Solo una, tra decine di società contattate ha risposto che l’ideale sarebbe stato incontrarsi (a Londra) e discutere per capire quale fosse la soluzione migliore per la specifica esigenza. Gli altri si accontentano di un pagamento e di un massimo di quattro documenti: la fotocopia del passaporto autenticata da un avvocato, la bolletta di un’utenza con nome e indirizzo, una lettera da parte di un avvocato e di una banca in cui si dice che conoscono la persona e che per quanto risulta a loro è una «brava persona».
«Serve solo per i nostri archivi e per le leggi contro il riciclaggio di denaro», tranquillizzano tutti. Naturalmente, ogni documento va spedito via fax o posta, senza che nessuno si ponga il problema delle meraviglie che può fare uno scanner in tema di falsificazione. Consigli d’amministrazione, verbali e bilanci? Tutto compreso nel prezzo, e comunque in molti casi sostanzialmente fittizio.
Se dal mondo anglosassone si torna in Italia, l’approccio di tributaristi e commercialisti sembra meno commerciale. «Non esistono problemi a costruire schemi di ottimizzazione fiscale - è la risposta ricorrente - ma bisogna prima capire qual è l’area di attività, il Paese in cui c’è mercato finale e i volumi di fatturato. I costi? Poca cosa, ma bisogna vedere».
Su quale poi sia la giurisdizione più conveniente, le opinioni sono meno esotiche. «Non serve andare ai Caraibi - sostiene Giovanni Barbara, managing partner dello studio legale K-Legal Milano, associato a Kpmg -, perché l’Ue offre una serie di possibilità per realizzare architetture societarie che riducono pressoché a zero l’imposizione. E sono schemi alla fine dei quali un imprenditore si trova con gli utili che arrivano legalmente in Italia, non su un conto offshore. Chi va a Cayman non lo fa certo per risparmiare sulle tasse, le ragioni sono altre».