I GESTORI....I PF.......

 

  By: Andrea on Venerdì 08 Aprile 2005 17:51

Panarea, non ho il piacere di conoscerla, per cui posso solo supporre che lei non sia l'investitore che viene solitamente invitato da KKR o Carlyle a partecipare a un nuovo fondo di private equity. Magari i suoi soldi sono finiti anche a loro ... ma seguendo un giro assai più lungo. Peraltro gli approcci sono molti ... c'è chi segue il modello illustrato da lei (tipo KKR, con ottimi risultati direi) e chi di operazioni ne ha fatte molte poche, molto buone e se le tiene strette da decenni (tipo Berkshire). Il mondo è bello perché è vario. E illudersi che l'essere quotati porti necessariamente a una selezione naturale che lascia al loro posto solo i manager migliori, più capaci ed efficienti e garantisce i migliori ritorni sull'equity ... mi sembra, appunto, un'illusione.

 

  By: panarea on Venerdì 08 Aprile 2005 17:42

sarò banale ma mettere i miei soldi in un fondo che poi compra saeco o delle merendine con la pretesa di fare non solo meglio di chi gestiva le aziende finora (e qui ci posso credere, manager più professionali ect) ma anche del mercato azionario sul lungo periodo (e non dimentichiamoci che essendo private il rischio è maggiore ergo io voglio più rendimento) è francamente statisticamente poco probabile e per me poco plausibile. il mib30 negli ultimi 24 mesi ha fatto da 24000 a 33000, il 37% complessivo, bastava un etf e via... oltretutto per esperienza so che i private equity si portano dietro un codazzo di avvocati, consulenti commercialisti che sono i veri e unici che guadagnano

 

  By: Andrea on Venerdì 08 Aprile 2005 17:23

Pochi esempi, molti tratti dall'articolo stesso. Public equity investito in private company: Berkshire Hathaway - Borsheim's, See's Candies e diverse altre Public equity investito in public company: Berkshire Hathaway - Coca Cola, Gillette, H&R Block e alcune altre Private equity investito in public company: Cape Natexis - Trevisan Private equity investito in private company: Permira - Marazzi Non ho una tesi da provare o un argomento di cui convincere alcuno, intendevo solo sottolineare che private e public equity e private e public company li possiamo trovare in tutte le possibili permutazioni.

 

  By: polipolio on Venerdì 08 Aprile 2005 17:08

"Voglio insomma dire che si trova l'intero spettro, dal private equity investito in public companies al public equity investito in private companies ..." Non v'ha dubbio che ci sia un certo grado di commistione, comunque la regola sarebbe quella che ha detto (in termini di allocazione di portafoglio). Ovviamente sono disponibile a rivedere la mia opinione se hai dati diversi.

 

  By: Andrea on Venerdì 08 Aprile 2005 16:38

> Ovviamente, altrimenti sarebbero fondi di Public Equity (come > Buffett); infatti quando vengono acquisite e delistate società > pubbliche si dice che sì è realizzata un'operazione di "go > private". Polipolio, in realtà Berkshire è quotata così come lo sono solo alcune sue significanti partecipazioni (Coca Cola, etc.) ma numericamente credo che le aziende private possedute superino quelle pubbliche. Buffett non ha mai fatto mistero di quali siano i deal che preferisce. Voglio insomma dire che si trova l'intero spettro, dal private equity investito in public companies al public equity investito in private companies ... l'importante è guadagnare! ;) Qualcuno qui conosce meglio l'iniziativa bresciana aperta a tutti e focalizzata sull'energia? Sarei interessato a saperne di più. Andrea

 

  By: polipolio on Venerdì 08 Aprile 2005 16:13

"Ma quali imprese in vendita finiscono nel mirino del private equity? Di solito, questi fondi acquisiscono società non quotate" Ovviamente, altrimenti sarebbero fondi di Public Equity (come Buffett); infatti quando vengono acquisite e delistate società pubbliche si dice che sì è realizzata un'operazione di "go private".

 

  By: lutrom on Venerdì 08 Aprile 2005 15:02

I nuovi padroni senza volto delle aziende italiane di Edmondo Rho (Panorama - 4 aprile 2005) Hanno nomi sconosciuti ai più come Blackstone o Pai. Si sono comprati oltre mille imprese e marchi storici, dalla Galbani alla Rinascente. Sono i fondi di private equity. Ora anche la Wind sta per passare sotto il loro controllo. Ecco chi sono (e come operano) i protagonisti del nuovo capitalismo. Alzi la mano chi sa che cos'è la Blackstone. O chi c'è dietro la Pai. Eppure all'ombra di queste misteriose sigle si sta giocando la partita per il controllo di alcune tra le più famose aziende italiane. Il fondo americano Blackstone potrebbe diventare il proprietario della Wind mentre la francese Pai ha appena comprato i grandi magazzini Coin-Oviesse. Non sono casi isolati. Ormai, come annuncia l'Harvard business school, siamo entrati nel «nuovo capitalismo finanziario» che sta cambiando le regole del gioco anche in Italia. Forse non tutti se ne sono accorti, ma tanti marchi sono finiti sotto il controllo di padroni senza volto, fondi che investono in tutto il mondo in società con potenzialità di crescita per risanarle e rivenderle dopo qualche anno. Dai formaggi della Galbani ai traghetti Grandi navi veloci, dalle Pagine Gialle alle moto Ducati, dagli yacht Ferretti fino all'ultimo colpo: la Rinascente. Un affare da 888 milioni di euro che ha visto tra i protagonisti Stefano Miccinelli, Dario Cossutta e Antonio Tazartes, i partner della società di private equity Investitori Associati. Il loro fondo chiuso infatti è diventato il primo azionista (con il 46 per cento) dei grandi magazzini venduti dall'Ifil degli Agnelli. Ma al di fuori degli addetti ai lavori pochi lo hanno notato, tanto più che il tam tam mediatico si è concentrato sugli altri soci della cordata, la famiglia Borletti (che ha appena il quattro per cento), e i gruppi immobiliari Pirelli Re (20 per cento) e Deutsche Bank real estate (30). E i manager di Investitori Associati? Nell'ombra, anche a livello di comunicazione: perché chi gestisce un fondo chiuso resta dietro le quinte. Fino agli anni Ottanta e Novanta i protagonisti delle acquisizioni di aziende erano finanzieri e industriali come Gianni Agnelli, Carlo De Benedetti o Raul Gardini, dai volti ben noti al grande pubblico. Quindi, negli anni delle grandi privatizzazioni, nuovi personaggi – Roberto Colaninno prima e Marco Tronchetti Provera poi – si sono impadroniti di megasocietà come Telecom Italia. Ora invece, sempre più spesso, marchi noti sono conquistati dal private equity: oltre ai già citati Pai e Blackstone (dietro il quale secondo alcuni potrebbe nascondersi Colaninno), la Bc partners, fondo chiuso paneuropeo che ha il suo quartier generale a Londra, si è presa la Galbani, mentre Permira, il più grande fondo europeo, si è aggiudicato gli yacht della Ferretti. La Fiat Avio è andata agli americani di Carlyle. L'olio Carapelli è della Bs private equity, mentre per la Seat pagine gialle si sono messi insieme quattro fondi italiani e internazionali (Bc partners, Cvc, Permira e Investitori Associati). Quanto a Clessidra, il più grande fondo chiuso sul mercato italiano (800 milioni di euro raccolti l'anno scorso) gestito da Claudio Sposito, ex amministratore delegato della Fininvest, ha appena comprato la Sisal. Una corsa all'acquisto che non si limita ai grandi nomi ben noti al grande pubblico, ma comprende anche medie e piccole imprese meno famose. «Alla fine 2004 i 97 operatori di private equity in Italia risultavano i nuovi proprietari di ben 1.150 aziende, con un investimento complessivo di oltre 9 miliardi di euro» spiega Anna Gervasoni, direttore dell'Aifi, l'associazione italiana del private equity e venture capital, anticipando dati che saranno presentati il 4 aprile nel convegno annuale della categoria. La caratteristica fondamentale di questi operatori è che, di solito, acquisiscono le partecipazioni nelle aziende con l'obiettivo di rivenderle entro tre-cinque anni. Ma chi li finanzia? In genere gli investitori istituzionali, che versano cifre variabili tra 10 e 40 milioni di euro ai fondi di private equity internazionali. Ma gli investitori istituzionali, a loro volta, non fanno che girare ai fondi chiusi i quattrini che hanno in gestione. Per esempio, i fondi pensione e gli investitori istituzionali all'estero, in media, investono fino al 5 per cento del loro patrimonio in private equity. «Insomma, alla fine il vero padrone dell'azienda è la vecchietta dell'Ohio che, tramite il suo fondo pensione, affida i suoi risparmi a professionisti che hanno come unica logica il rendimento» sostiene Edoardo Lanzavecchia, managing director per l'Europa del Carlyle group. Funziona? Secondo i dati dell'Aifi, non va affatto male, se è vero che il private equity in Italia ha reso mediamente circa il 17 per cento all'anno nell'ultimo decennio. Gli insuccessi, comunque, non mancano: anche perché l'investimento è rischioso e volatile. Per esempio, la Piaggio è stata venduta con un'enorme perdita dal fondo chiuso di Morgan Grenfell a Colaninno, che ora invece può guadagnare grazie a un nuovo ciclo positivo dell'azienda che ha creato la Vespa. Capita anche che le famiglie di imprenditori possano prendere il posto degli operatori di private equity. Lo dimostra, per esempio, il caso della 21 Investimenti che fa capo ad Alessandro Benetton. Era una holding di partecipazione, da quest'anno si è trasformata in una società di gestione di fondi di private equity che opera tra Italia e Francia. Le aziende partecipate (tra cui quella dei peluche Trudi) sono circa 35 con un valore di 500 milioni di euro, mentre in cassa da investire ci sono altri 170 milioni. E non è un caso unico. A Brescia un gruppo di imprenditori, professionisti del private equity e docenti universitari hanno creato il fondo Impresa finanza che punta sulle aziende energetiche. La particolarità? Possono investire anche i comuni risparmiatori, con una cifra minima teorica di 50 mila euro. Il boom del private equity in Italia è testimoniato da un altro dato dell'Aifi: i fondi chiusi italiani avevano in tasca al 31 dicembre scorso ben 4,8 miliardi di euro disponibili per nuovi investimenti. «Nei primi mesi del 2005, si sono perfezionate importanti operazioni come Rinascente e Coin che erano state preparate l'anno scorso» spiega Gervasoni. I manager di Investitori Associati, per esempio, che si finanziano per l'85 all'estero tramite fondi pensione e operatori internazionali specializzati nel private equity (in Italia i principali investitori sono Banca Intesa, Generali, De Agostini e Ras) hanno iniziato a spendere nella Rinascente i 700 milioni di euro raccolti l'anno scorso con il loro quarto fondo (il primo fu lanciato nel 1993). Tra le più recenti operazioni del private equity, poi, c'è la Marazzi, azienda di ceramiche modenese nel cui capitale sono entrati due fondi chiusi, la Permira con il 28 per cento e la Private equity partners, presieduta da Fabio Sattin, con il 5 per cento. Obiettivo probabile nel medio termine: la quotazione in borsa. L'approdo in Piazza Affari, del resto, è una delle possibili conclusioni di queste operazioni, anche se non sempre coincide con la contemporanea uscita dell'investitore finanziario. Simone Cimino, amministratore delegato del fondo italo-francese Cape Natexis, è rimasto per esempio con il 18 per cento nel capitale della Trevisan, azienda produttrice di infissi, anche dopo la quotazione in borsa. Ma quali imprese in vendita finiscono nel mirino del private equity? Di solito, questi fondi acquisiscono società non quotate. Oppure, se si tratta di imprese quotate, comprano pacchetti di maggioranza e poi lanciano un'opa per rastrellare i titoli residui sul mercato. Come è avvenuto nel caso delle due più grandi operazioni del 2004: la Saeco (rilevata dal fondo francese Pai e poi cancellata dal listino di borsa) e la Grandi navi veloci, acquisita da Permira. Conferma l'amministratore delegato, Guido Paolo Gamucci: «In tutta Europa il private equity ha mostrato interesse per le aziende quotate con flottante più scarso, che spesso sono state tolte dal listino». Secondo il private equity monitor, l'osservatorio dell'Aifi e dell'Università di Castellanza con Argos Soditic Italia, Ernst & Young e Bnl, l'impresa-tipo che interessa i fondi chiusi è a proprietà familiare, quasi sempre con sede nel Nord Italia (spesso in Lombardia) e un numero di dipendenti compreso tra 50 e 150. Il fatturato, invece, si colloca mediamente tra i 30 e i 60 milioni di euro, mentre il prezzo pagato non si discosta molto dal fatturato. Paolo Baretta, managing partner di Bs private equity, precisa: «Il cuore del mercato sono operazioni che vanno da 5 a 50 milioni di euro, e noi siamo specializzati in questa fascia». Spesso, l'arrivo di un fondo chiuso può risolvere uno dei maggiori problemi delle aziende a conduzione familiare: la difficile successione di padre in figlio. A questo proposito, Franco Carlo Papa, presidente di Ernst & Young financial-business advisors, sostiene che per la crescita del settore in Italia occorre capire «l'importanza del contributo manageriale che un fondo è in grado di offrire». Ma davvero la modernizzazione del capitalismo italiano passa attraverso il private equity? «A volte, quando acquisiamo un'azienda, veniamo visti con sospetto dai politici» risponde Fabio Sattin, presidente della Private equity partners. Ma ora anche questa diffidenza sta venendo meno. Un caso per tutti? Il governatore del Piemonte, Enzo Ghigo, ha proposto di recente che un fondo chiuso rilevi i crediti della Fiat verso le aziende dell'indotto automobilistico. Private equity, a salvare un settore da 50 mila posti di lavoro, provaci tu. IDENTIKIT DEL MERCATO FONDI In Italia operano 97 fondi specializzati nel private equity e nel venture capital. Di questi, 19 si definiscono «paneuropei», mentre 13 fanno capo a banche italiane. AZIENDE A fine 2004 il portafoglio complessivo dei fondi operanti in Italia risultava composto da 1.150 aziende con un investimento di 9 miliardi di euro. E le società hanno ancora a disposizione 4,8 miliardi da spendere.

 

  By: Moderator on Domenica 30 Gennaio 2005 15:32

detentori di fondi senza speranza : da Financial Yearbook 2005 di Bloomberg FM pag 26 . "da un' indagine condotta dalla Sec è emerso che è prassi comune per i mutual fund pagare i broker per l'acquisto di quote dei propri fondi.La Sec ha riscontrato che 14 su 15 case di brokeraggio sotto esame hanno ricevuto compensi per la vendita di fondi . E 13 su 15 avrebbero suggerito ai clienti di acquistare quote dei fondi che versavano mazzette."

Solo sui siti internet imparavi che Acqua Marcia vale forse il triplo - gz  

  By: GZ on Venerdì 28 Gennaio 2005 14:59

Oggi appare su ^finanzaemercati#http://www.finanzaemercati.it^ quello che "Alex63" Crovati predica da mesi sul FOL e anche qui e cioè che Acqua Pia Marcia vale forse il triplo. Alcuni fondi americani ieri hanno fatto un "...esposto alla Consob invitando la Commissione a valutare attentamente il bilancio di Acqua Marcia all’atto di fissare il prezzo dell’Opa residuale.... da una valutazione del patrimonio e degli altri asset il prezzo obiettivo di Acqua Marcia dovrebbe essere 0,95 euro per azione, quasi il triplo rispetto alla prima offerta..." Tradotto in lingua italiana sembra che Caltagirone stia cerando di portarsi via Acqua Pia Marcia a 1/3 circa del suo vero valore. Notare: i) un privato cittadino/investitore scrivendo su dei siti internet ti dice quello che la stampa e i canali TV finanziari in cui passeggiano centinaia di gestori ed esperti non ti dicono (e ti faceva guadagnare dei bei soldi se lo seguivi) ii) i fondi che hanno fatto lo stesso ragionamento di "Alex63" Crovati e sono andati alla Consob sono AMERICANI, in Italia ci sono circa 1.000 fondi e gestioni varie e non uno solo è stato in grado di farlo. Non perchè siano meno intelligenti, ma appartengono alle banche e non possono disturbare gli affari di chi possiede tre o quattro quotidiani ed è dentro a due grandi banche (ed è pure imparentato ora con un presidente della camera). Per i dettagli ^vedere i post precedenti#http://www.cobraf.com/forumf/cool_r_show.asp?topic_id=0&reply_id=50469^

 

  By: Moderatore on Domenica 05 Ottobre 2003 00:52

Reti in gran fermento Da inizio anno il mondo delle reti continua a registrare buoni risultati in termini di raccolta, raggiungendo una raccolta netta di risparmio gestito positiva per 8 miliardi e 298,5 milioni di euro e 987,9 milioni di euro di raccolta netta nel risparmio amministrato. Il saldo complessivo risulta così positivo per 9 miliardi e 286,4 milioni. La continua crescita di attività in gestione non deve però trarre in inganno: le reti di promotori finanziari non attraversano un momento facile, anzi. Il mercato è in piena fase di consolidamento e la scorsa estate sotto questo punto di vista è stata esplosiva, con gli accordi di acquisizione di Banca Primavera da parte di Banca Generali, di Ing da parte di Xelion e del gruppo Commerzbank da parte di Rasbank. Di questo passo diverse realtà piccole finiranno prede dei big del settore: Fideuram, Mediolanum, Banca Generali, Xelion e Rasbank. Mentre a metà del guado si trovano società di medie dimensioni che hanno dinanzi a loro due opportunità: cercare di crescere da sole, trovando nicchie di redditività interessanti, o procedere a fusioni con altre reti per aumentare gli asset in gestione. Ma questo processo dovrà avvenire in fretta, altrimenti il rischio di finire sotto take over da parte dei grandi sarà inevitabile. «È in corso un fenomeno di consolidamento nel mercato delle reti, che comporta un processo di concentrazioni e fusioni. oggi», spiega Davide Passero, condirettore generale di Banca Generali, «il mercato è concentrato in cinque realtà che detengono il 68% degli asset ed i primi 15 hanno in portafoglio il 95% degli attivi. La soglia critica per operare in maniera profittevole in questo settore è aumentata e riteniamo siano necessari almeno 10-12 miliardi di euro di attivi in gestione. Questa situazione», continua Davide Passero, «si è verificata a causa di una riduzione dei margini dovuta da un lato alla pressione competitiva e dall’altro alla modifica del mix complessivo degli asset verso componenti obbligazionarie ed a minor grado di rischio. Inoltre, le maggiori dimensioni sono richieste per sostenere consistenti investimenti in tecnologie, logistica, servizi di call center e supporti informativi a sostegno dell'attività dei promotori finanziari». Per aumentare la soglia critica è però necessario incrementare la raccolta netta, un lavoro in cui si è particolarmente distinta Xelion, la rete del gruppo Unicredito, che ha raggiunto, secondo dati Assoreti, il primo posto in questa classifica, da inizio anno, con 1 miliardo e 308,375 milioni di euro. «In termini di raccolta netta», afferma Dario Prunotto, amministratore delegato di Xelion, «abbiamo insieme a Ing il 18% della raccolta netta complessiva, un risultato dovuto soprattutto al risparmio gestito, e molto incoraggiante soprattutto in considerazione del fatto che siamo una rete giovane». Con l'ingresso di Ing la rete del gruppo Unicredito punta a crescere ancora molto aumentando la filosofia multibrand. «Una delle chiavi del successo è stata la libertà che abbiamo dato ai promotori finanziari di selezionare i prodotti multibrand che abbiamo in portafoglio (Anima, Bnp Paribas, JP Morgan Schroder ecc.), ora a questi si aggiungeranno quelli di Ing che ci potranno aiutare molto a migliorare ancora l'offerta. Tra l'altro, nel mese di novembre i promotori di Ing avranno a disposizione i prodotti di Xelion». Unica pecca è la mancanza del Conto Arancio nel bouquet della nuova offerta, ma Ing direct è rimasta alle dipendenze della capogruppo olandese http://www.milanofinanza.it/

prediche inutili - gz  

  By: GZ on Lunedì 05 Maggio 2003 16:12

Leggo oggi sull'inserto economia del lunedì del corriere, la pubblicazione di finanza migliore in italia soprattutto perchè abbastanza critica: ".... Se consideriamo i 10 fondi azionari più cari, ad esempio, scopriamo che il fondo Gp Special di Generali am sgr, che investe in tecnologie e in settori ad alta crescita, ha fatto perdere ben 6.672 euro a chi tre anni fa ne avesse investititi diecimila. Di questa perdita complessiva, ben 1.214 euro, pari al 12% del totale, è dato dal semplice costo del fondo...." Di fronte a questi dati cosa rispondono i responsabili dei fondi comuni al giornalista del corriere ? "...Ma ora, dice Mazzucchelli, «diventerà sempre più importante offrire un buon rapporto tra costo e servizio: la consulenza per capire i veri bisogni e le esigenze finanziarie del risparmiatore deve essere un momento prioritario». Secondo Mazzucchelli, quindi, nei prossimi anni si assisterà a un allargarsi del divario nei prezzi tra i fondi gestiti con modelli quantitativi e quelli che applicano una gestione attiva e un maggior livello di consulenza. «Questi ultimi potranno anche aumentare di prezzo, di pari passo con il maggior grado di complessità e sofisticatezza del prodotto»" "..capire i veri bisogni del risparmiatore ???!!.." Come se fosse difficile capire che vuole ritrovarsi, magari non dopo un anno, ma dopo cinque, con più soldi di quanti se ne aveva all'inizio. L'IDEA CHE DEBBANO SEMPLICEMENTE GUADAGNARE DI PIù DELLA CONCORRENZA, cioè dire: "...i nostri fondi negli ultimi 5 o 8 anni in media hanno guadagnato il +29% ( o il +41% o che so io...) e quelli della concorrenza molto meno anzi in media hanno perso...." questa idea resta rigorosamente tabù. Se il tuo "prodotto" è un investimento su un orizzonte di tempo di qualche anno devi fare meglio degli altri. Come chi produce piastrelle o infissi o automobili o telefilm o illuminazione da discoteca che deve farli migliori e meno costosi delle piastrelle o infissi o automobili o telefilm o illuminazione dei concorrenti. Non c'è mai nessuno che dica: "... dal 1998 o dal 1995 però noi in media abbiano reso X%, rispetto all'indice che ha fatto invece Y% e la media della concorrenza che ha fatto Z%..." perchè se lo facessero, ma computando però tutti i fondi che vendono e non solo quello che va in questo momento, dovrebbero forse fallire, come tante aziende metalmeccaniche o tessili falliscono quando il loro prodotto non va. Ma è l'unica industria privata dove nessuno mai fallisce. ---------------------------------------------------------------------------- Fondi comuni, una tassa da 25 miliardi di Marco Sabella Francesca Monti - corriere di oggi -- Hanno incassato laute commissioni, ma bruciato in tre anni 91.000 milioni di euro. E con la ripresa dei mercati le cose rischiano di peggiorare Cari e avari. I risparmiatori che non si rassegnano all’idea di dover pagare somme elevatissime per performance deludenti accusano così i fondi d’investimento. Ora che il grande crollo legato allo sgonfiarsi della bolla speculativa è in gran parte metabolizzato, tutti si sono adattati all'idea che i mercati non torneranno tanto facilmente sulle vette himalayane della primavera del 2000. Le aspettative di rendimento, dunque, si sono fortemente ridimensionate. Ma non altrettanto si può dire delle spese: negli ultimi tre anni i «fondisti» hanno lasciato sul piatto della crisi 91 miliardi di euro, di cui ben 25 rappresentano le commissioni. Vale a dire che hanno pagato per perdere il 4,84% del patrimonio medio totale. Il criterio guida più preciso per capire quanto costa un fondo di investimento è quello del Ter, il total expense ratio , che misura quanto incide in percentuale sul patrimonio dato in amministrazione la somma di tutti i costi applicati. Il cliente, infatti, non paga solo la commissione di gestione (quelle degli azionari arrivano al 2,5% nel nostro sistema), ma anche d i performance (quando esistono), oltre a oneri amministrativi di vario genere. A questi poi si possono aggiungere biglietti di entrata e di uscita che il Ter dei fondi non conteggia, perché sono introiti che vanno a finire nel bilancio di chi distribuisce il prodotto. In questi anni il Ter è costato ai clienti quanto il rendimento di un Bot annuale. Nel 2002 la media di sistema è stata infatti dell’1,46%. Nel 2000 era all’1,82% (vedi tabella ). Un calo dovuto soprattutto alla (quasi) sparizione delle commissioni di performance, uccise dalla mancanza di materia prima: i risultati positivi, appunto. Il rapporto costi-benefici, però, è il vero nodo cruciale dell’analisi. Se consideriamo i 10 fondi azionari più cari, ad esempio, scopriamo che il fondo Gp Special di Generali am sgr, che investe in tecnologie e in settori ad alta crescita, ha fatto perdere ben 6.672 euro a chi tre anni fa ne avesse investititi diecimila. Di questa perdita complessiva, ben 1.214 euro, pari al 12% del totale, è dato dal semplice costo del fondo. Una constatazione amara per chi, avido o mal consigliato, si aspettava invece uno scenario ben diverso. Questi sono gli eccessi negativi. L’attento studio dei Ter di gruppo, cioè dei costi medi aggregati di tutti i fondi venduti dalle dieci sgr più importanti, mette in evidenza numeri molto variabili. E diverse tipologie di costo-rendimento. La più convenienti è Nextra, la sgr di Banca Intesa, con un Ter 2000-2002 pari al 3,35% del patrimonio medio: in soldoni negli ultimi tre anni i suoi clienti hanno perso il 7,77% (come rendimento ponderato) e hanno pagato 2,9 miliardi di commissioni totali. La più cara, invece, è Dws, la società del risparmio gestito di Deutsche Bank. Il Ter del triennio è pari al 5,31%, sempre calcolato sul patrimonio medio. In soldoni il risultato negativo dei suoi clienti è pari al 18%, mentre la loro spesa totale supera il miliardo. E anche il gruppo MontePaschi non scherza: il suo tasso medio di spesa è stato pari al 4,6%. Per dirla breve: in media la perdita dei clienti è stata pari al 17,3% a fronte, anche in questo caso, di più di un miliardo di spese. In generale si può notare che i grandi gruppi escono meglio dei più piccoli alla prova del fuoco costi-rendimenti. Con le maggiori sgr italiane, SanPaolo Imi (3,84% il Ter triennale) e Nextra, su livelli di Ter di circa il 20% inferiori rispetto alle sgr di dimensioni medie o medio-piccole. «L'esistenza delle economie di scala è legata alla elevata intensità tecnologica del settore ed è probabile che anche in futuro assisteremo a un recupero di efficienza» afferma Fabio Galli, il segretario generale di Assogestioni, l'associazione che raggruppa le sgr italiane. Ma al di là dei possibili miglioramenti futuri sul piano dei costi Galli sottolinea che «il sistema italiano dei fondi è uno dei più trasparenti e dei meno cari, anche nel confronto internazionale». L'Italia infatti è l'unico Paese insieme agli Stati Uniti che impone alle società di gestione la pubblicazione dei dati sul Ter. Che cosa faranno allora d’ora in avanti le sgr per migliorare il servizio e, magari, ridurre il carico dei costi? «Dal mese prossimo i fondi Nextra aboliranno qualsiasi commissione di ingresso e il sistema fondi italiano tenderà ad assomigliare sempre di più al modello spagnolo dove non esistono costi di ingresso e di uscita», dice Enrico Maiocchi, direttore marketing dei fondi Nextra. Che comunque afferma: «la vera concorrenza si gioca soprattutto sulle performance: i risparmiatori sono attenti al risultato piuttosto che ai costi». Molto cauto sulle possibilità di evoluzione verso il basso della struttura dei costi applicati al risparmiatore è Marco Mazzucchelli, amministratore delegato di SanPaolo Imi wm. «Una parte dei risparmi di costo derivanti dai miglioramenti tecnologici verrà trasferita sui risparmiatori», dice. Ma ora, dice Mazzucchelli, «diventerà sempre più importante offrire un buon rapporto tra costo e servizio: la consulenza per capire i veri bisogni e le esigenze finanziarie del risparmiatore deve essere un momento prioritario». Secondo Mazzucchelli, quindi, nei prossimi anni si assisterà a un allargarsi del divario nei prezzi tra i fondi gestiti con modelli quantitativi e quelli che applicano una gestione attiva e un maggior livello di consulenza. «Questi ultimi potranno anche aumentare di prezzo, di pari passo con il maggior grado di complessità e sofisticatezza del prodotto» conclude. Insomma è meglio non illudersi su forti dimensionamenti dei costi. Anzi. Secondo Galli il calo del Ter potrebbe arrestarsi in una fase in cui con la ripresa dei mercati anche le commissioni di performance, che remunerano i gestori migliori, tornassero in territorio positivo. E questo è forse l'unico costo che i sottoscrittori sarebbero pronti a sostenere con piacere.

i fondi NON SONO RISPARMIO GESTITO - gz  

  By: GZ on Martedì 13 Agosto 2002 11:24

Il difetto sta nel manico, ovvero nel prodotto che viene venduto come "risparmio gestito". I fondi comuni nel 90% dei casi in Italia NON SONO RISPARMIO GESTITO, ma semplicemente gli indici (italiano, europeo, americano, giapponese) travestiti da "gestione" Si vende un prodotto che non è una gestione con caratteristiche specifiche, ma il pratica il listino generale ( -2% di commissioni varie) di un certa area. Ma basterebbe allora pagare il 3 per mille e comprare direttamente in borsa uno strumento QUOTATO che riproduce il listino tedesco o italiano o americano Dimostrazione: Questi sono le variazioni dai massimi DI QUEST'ANNO (non del 2000), cioè dai massimi di gennaio o marzo 2002 dei fondi italiani "area America" fornitemi da Bridge (ce ne sono anche altri che non stanno nella pagina). Sembrano tutti uguali no? . Ovviamente si può fare anche il confronto da inizio 1999 o 1997 oppure dall'inizio della vita del fondo ecc..., ma come approssimazione questo da un idea. Fino a marzo la raccolta dei fondi era positiva e questa tabella da un indicazione di quello che è successo in 3-4 mesi e di come si differenzino tra loro i fondi e rispetto all'S&P 500 (l'indice che costa l'1 per mille comprare) Modificato da - gz on 8/13/2002 9:30:47

 

  By: paolagir on Martedì 13 Agosto 2002 01:45

Senti ulkverde, dimenticavo: è meglio dirgli (al pollo) che anzicchè un falso segnale che non gli ha fatto guadagnare il 6% si ritrova con una perdita del 40% perchè il suo PF si .acava sotto a dirgli che stava perdendo e nel contempo "sperava" che i mercati risalissero!?... Da quello che scrivi intravedo questo tipo di mentalità. O sbaglio? La realtà è che quando si lavora con i soldi degli altri non ci si può nascondere dietro i BENCHMARK e percepire commissioni di PERFORMANCE anche se queste sono state negative in termini assoluti MA MIGLIORI DEL BENCHMARK DI RIFERIMENTO!?!?!?!?!?!?!?!?!?!?!?!!??!? E' come dire: - la tua fiat punto, di fabbrica, deve fare i 160 km/h - la tua fiat punto, di 2 anni, ora non riesce a fare + di 80 km/h - la porti dal meccanico e lui te la restituisce che riesce a fare i 110 km/h (e lo paghi 400 euro). Saresti contento? Vero che non c'è fine al peggio? Pensa, avrebbe potuto restituirtela che faceva 50km/h... Morale? Vediamo se la capisci... Paola

 

  By: paolagir on Martedì 13 Agosto 2002 00:57

Posso essere volgare? Ma chi .azzo gli e lo ha detto al pollo di comprare fondi azionari al 4/8% di commissione d'ingresso? Io? Oppure chi gli doveva spiegare il rischio a cui si esponeva? Personalmente ogni trade (oppure ogni posizione in fondi, è lo stesso) mi chiedo subito quanto sono disposta a perdere e faccio conto di avere già perso! Quanti PF dicono "Lei vuole il 40% di rendimento? Si rende conto che rischia il 60/70% dei suoi risparmi?" Tanto di cappello a quei PF che lavorano così. E ci sono sicuramente. Ma non sono tanti!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! Che studino un pochino di analisi tecnica lorsignori, che alla lunga paga non inchiappetare il cliente! Chiedo scusa per essere stata scurrile, ma quando si semina si raccoglie... Paola

 

  By: ulkverde on Lunedì 12 Agosto 2002 23:46

ma anche se il PF avesse capito lo stop loss, e lo applica al cliente sul fondo azionario e poi lo stop fosse stato un falso segnale.....chi lo spiega al cliente che: 1)mi hai fatto comprare un fondo azionario; 2)me lo hai fatto vendere per lo stop loss; 3)il fondo azionario sale.......... ciao ciao