By: GZ on Martedì 23 Novembre 2004 14:28
Dicono che non trovano i soldi per ridurre le tasse nemmeno di 5 miliardi di euro su un bilancio dello stato di 550 miliardi (sarebbe lo 0.9% e quale famiglia o impresa non riesce a ridurre le spese di un 0.9% ?)
Per cui bisogna che il cittadino dia una mano con dei suggerimenti utili su dove risparmiare.
Ecco un idea. Anche quest'anno lo stato spende per circa 1.200 pentiti più i loro famigliari più di 100 milioni di euro (sugli 85 mila euro a pentito in base ai numeri che ho letto).
Soldi che vanno a personaggi come Balduccio Di Maggio,il "testimone oculare" del bacio tra Andreotti e il capo della mafia che dopo aver avuto mezzo miliardo dallo stato per la collaborazione è stato trovato ad organizzare di nuovo omicidi, ma non ha più ridato indietro i soldi.
Ma non è un caso isolato anzi è tipico: è tramite centinaia di pentiti beneficiari di milioni di euro che vengono messi in piedi dozzine processi in cui l'unica e sola prova è la loro testimonianza (pagata).
I risultati sono del genere del famoso Marino Mannoia che ha accusato metà dei giudici siciiani avendo avuto l’immunitá garantita per legge. Quando poi tutti i processi basata su un simile personaggio a uno a uno crollano, come questo contro il giudice Giuseppe Prinzivalli assolto un mese fa, non lo leggi sui giornali.
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Giuseppe Prinzavalli giá presidente di Corte d’Assise a Palermo e poi procuratore a Termini Imerese, assolto con formula piena, «per non aver commesso il fatto», venerdí sera dalla corte d’Appello di Caltanissetta. Leonardo Sciascia lodava le sue sentenze, ma alla Procura di Palermo lo chiamavano giá il «Carnevale secondo».
Prinzivalli aveva presieduto il maxiprocesso ter e aveva mandato assolti molti degli imputati perché si era rifiutato di credere alle accuse dei «pentiti» che erano senza prove e senza riscontri: «Non puó essere consentito al giudice - aveva scritto nelle motivazione della sentenza - lo stravolgimento delle regole probatorie da applicare solo ai processi di mafia. Necessita sempre un serio e rigoroso controllo di tutti gli elementi del reato, le prove devono assumere carattere di certezza e gli indizi devono essere concordanti e univoci. Non c’è ingresso nel processo penale ai semplici sospetti e a generiche opinioni». Sciascia richiamó la sentenza di Prinzivalli nella sua famosa polemica contro i «professionisti dell’Antimafia» e commentó: «Sono parole che credo nessuna persona onesta e intelligente rifiuterá di sottoscrivere».
I pm bollarono a fuoco Sciascia e processarono Prinzivalli. «Non ce ne voglia l’illuminato uomo di cultura Leonardo Sciascia - scrissero - se per questa volta, con tutta la nostra forza lo collochiamo ai margini della societá civile... Certo, caro Sciascia, vivere nella tranquillitá bucolica è cosa ben diversa che vivere nell’angoscia della probabile vendetta mafiosa. Certo, cosí vivendo, si rischia molto meno: ma si diventa, a poco a poco dei quaquaraquá». E per Prinzivalli spuntó subito il «pentito» che lo accusava. Spuntó in piena notte a New York, alle 4 e 30 del mattino del 4 aprile del 1993, come documenta il verbale dell’interrogatorio.
E Francesco Marino Mannoia, che per tutti questi anni è stato la riserva americana del pentitismo italiano ed è stato anche 1’unico «pentito» che ha avuto l’immunitá garantita per legge. Nel suo contratto sottoscritto negli Stati Uniti, sta scritto che, qualsiasi cosa dica e contro chicchessia, non puó essere chiamato a rispondere di calunnia in Italia (lo ha ricordato di recente in Senato Giulio Andreotti, un’altra vittima di Mannoia).
Quella notte Mannoia parla con i sostituti del procuratore di Palermo Giancarlo Caselli e racconta di aver saputo in carcere da un tale Puccio (che non fa in tempo a essere interrogato e a confermare il racconto perché subito dopo viene ammazzato in cella, massacrato a colpi di bistecchiera) che Michele Greco detto «il Papa», per aggiustare un processo in cui era imputato e che era presieduto da Prinzivalli, si era rivolto a Totó Riina perché mandasse il suo fido Giuseppe «Piddu» Madonia a parlare con Corrado Carnevale, il presidente della prima sezione penale della Cassazione. Corrado Carnevale (il «Carnevale primo»), che in effetti in quel processo, appunto il maxi ter, assolse il «Papa».
I sostituti di Caselli erano andati a New York a sentire Mannoia proprio perché puntavano su Corrado Carnevale, punto di passaggio obbligato per processare Giulio Andreotti, per conto del quale aggiustava, secondo l’accusa, i processi di mafia. Prinzivalli resta impigliato nella rete tesa a Carnevale: nessuno ha mai potuto provare che Carnevale e Prinzivalli si frequentassero e che almeno si conoscessero, ma per i professionisti dell’Antimafia i due giudici, Carnevale primo e Carnevale secondo, erano accomunati dallo stesso «delirio garantista». E anche se non c’è la minima traccia di contatti diretti di Prinzivalli con la mafia, egli ha aggiustato il processo e ha assolto Michele Greco per «simpatia» culturale e ideologica con Carnevale, maestro di diritto e di plagio.
A ottobre c’è l’avviso di reato, il solito concorso esterno in associazione mafiosa, e il decreto di perquisizione, che reca anche due firme illustri, quella di Fausto Cardella, il Pm che poi andrá a Perugia a processare Andreotti per l’omicidio Pecorelli, e quella di Ilda Boccassini, il pm che è discesa in Sicilia per indagare sull’assassinio di Giovanni Falcone e che fará in tempo a interrogare il «pentito» Salvatore Cancemi ponendo la prima pietra dell’inchiesta su Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi quali presunti «mandanti esterni» della strage. La perquisizione non approda a niente.
Prinzivalli si autosospende dalle funzioni e chiede di essere arrestato, rifiuta anche l’udienza preliminare e il Gip, chiede di essere processato pubblicamente e subito, sollecita il rito abbreviato. Ma quelli devono intanto pensare ad Andreotti e a Carnevale primo, e Carnevale secondo puó aspettare: il dibattimento comincerá soltanto nel novembre del 1995, e per fortuna che il rito è abbreviato, cosí il processo dura soltanto due armi e mezzo, e in due anni e mezzo trovano il tempo per celebrare soltanto 65 udienze, nemmeno una per settimana, nel corso delle quali sentono settanta testimoni e undici «pentiti».
Il protagonista del processo non è l’imputato, ma il presidente, la signora Antonina Sabatino, un magistrato che ha due fondamentali caratteristiche: è stata una collaboratrice, in pratica una dipendente, del presidente Prinzivalli, con il quale non è andata sempre d’accordo, e presiede da qualche tempo una specie di «tribunale speciale», nel senso che è specializzato nel processare a Caltanissetta i magistrati.
Prima di Prinzivalli, la signora Sabatino ha giá condannato due giudici, Giuseppe Urso e Salvatore Sanfilippo, e ne sta processando un quarto, Pasquale Barreca, che condannerá come gli altri tre (ma che in appello sará assolto). Un quinto giudice, Giovanni Barrile, lo aveva per la veritá assolto, ma nella sentenza con cui lo assolveva, aveva lanciato un anatema contro la magistratura siciliana: «Una intera generazione di magistrati - aveva scritto nella sentenza - è stata collusa con la mafia». I giudici siciliani della generazione precedente a quella della Sabatino, anche se singolarmente non furono corrotti dal danaro o piegati dalla paura, lo fecero per «adesione ideologica», della mafia avevano un’idea romantica, la consideravano una garanzia per l’ordine sociale, ne erano come affascinati. Povero Prinzivalli, esponente di spicco di una generazione di giudici «affascinati» dalla mafia, processato dalla nuova generazione dei giustizieri dell’Antimafia, e per giunta da una sua ex collaboratrice sottoposta, la prima volta nella storia processuale del mondo intero: gli avvocati la ricusano, tantoppiú che per i trascorsi rapporti tra la Sabatino e il «principale» potevano esserci motivi di astio, ma la Corte d’appello respinge l’istanza. E la Sabatino dimostra subito che non è tipo da complessi di inferioritá: accoglie tutti i testimoni richiesti dall’accusa e massacra la lista dei testi della difesa, dice di sí al Pm e di no agli avvocati, ostacola i loro tentativi di controinterrogare i «pentiti» e di mettere in evidenza le imprecisioni, le reticenze, le menzogne. Fino a che, dopo due anni di questo tormentone, i difensori di Prinzivalli non ce l’hanno fatta piú e hanno rimesso il mandato. Si sono tolti la toga dalle spalle, l’hanno deposta sui banchi e sono usciti dall’aula. La Sabatino ha chiesto all’imputato: vuole nominare un altro difensore? L’imputato: non ci penso nemmeno. La Sabatino gli ha nominato l’avvocato d’ufficio. Questi ha dato un’occhiata alle carte del processo (50mila pagine) e ha chiesto un paio di mesi di tempo per leggerle. La Sabatino gli ha concesso tre giorni. Dopo tre giorni, l’avvocato d’ufficio, ascolta la requisitoria del pm. Si è alzato e ha detto tre parole: «chiedo l’assoluzione dell’imputato» e si è riseduto.
Questo di Prinzivalli è stato il primo processo di mafia, e finora l’unico che si è concluso senza l’arringa della difesa. L’accusa ha puntato sostanzialmente su due «pentiti»: il primo è il Mannoia di New York che ha riferito la confidenza di quel Puccio ucciso con la bistecchiera prima che potesse confermare, e che poi non si è presentato al dibattimento, si è dato malato per una, due, tre volte, e che quando, dopo la perizia del medico, è stato trascinato nell’auto, si è seduto e ha dichiarato: «Mi avvalgo delle facoltá di non rispondere». Il secondo «pentito», quello su cui si è basata la sentenza di condanna, è stato il famoso Salvatore Cancemi, quello che ha accusato Dell’Utri e Berlusconi di aver incontrato Totó Riina alla vigilia della strage di Capaci e di essere stati in pratica i mandanti dell’assassinio di Giovanni Falcone. Cancemi ha dichiarato il contrario di quanto aveva detto Mannoia. Secondo questi, non ci sarebbe stato nessun contatto diretto tra Prinzivalli e la mafia, sarebbe stato Riina a mandare Madonia a parlare con Carnevale, e Carnevale sarebbe intervenuto su Prinzivalli per convincerlo ad assolvere Michele Greco.
Cancemi ha invece raccontato che è stato Totó Riina a trattare direttamente con Prinzivalli e a ricompensarlo con «‘na vurza piena di piccioli (una borsa piena di soldi)». Quanti soldi è stato chiesto a Cancemi? E Cancemi: io non li ho contati, non li ho nemmeno visti, e in veritá non ho visto nemmeno la vurza... E allora? E Cancemi: non ho visto niente, ma lo posso immaginare, perché io conosco il «linguaggio immaginifico» di noi uomini d’onore... Sarebbe? «Parlare per immagini - ha spiegato Cancemi rientra nello stile di noi uomini d’onore, specialmente se siamo di rango elevato... Se Riina mi ha parlato di una vurza, e mi disse che ‘u sauru (Riina chiamava cosí Prinzivalli per via del colore della pelle e dei capelli) si futtiu una vurza piena di piccioli, e parlandone, ha alzato le mani e gli occhi al cielo voleva dire che i soldi erano tanti, proprio tanti...».
Quando si sono resi conto che le dichiarazioni dei «pentiti» stavano in piedi e si contraddicevano a vicenda, sono passati a processare non piú il giudice, ma direttamente la sentenza. Prinzivalli, hanno detto, non sará plagiato da Carnevale, come aveva detto Mannoia, non sará stato corrotto da Riina con la vurza piena di piccioli, ma alcuni boss gli ha assolti, a cominciare da Michele Greco, e di ció deve comunque rispondere. Ma Prinzivalli non è un giudice monocratico, non era solo in Camera di Consiglio, con lui c’erano due giudici togati e sei giudici popolari...
Bene, sentiamoli tutti. Vogliamo sapere come hanno votato ciascuno di loro per ciascuno dei 125 imputati del processo maxi ter, come e di che cosa si è discusso, che cosa è stato detto, chi ha votato a favore e chi contro...
Ma il segreto della Camera di Consiglio non è piú il sacro e inviolabile dei segreti, e mai nessuno ha osato chiederne conto? Non importa, ha decretato la signora Sabatino come in una bolla papale, io vi sciolgo dal segreto, parlate... Due giudici togati e sei giudici popolari, spaventati e umiliati, hanno alla fine raccontato tutto, e per filo e per segno... E per l’accusa è stata la débácle: si è scoperto che il presidente Prinzivalli, non solo aveva comunque inflitto agli imputati del suo processo sette ergastoli e 350 anni di carcere, ma che in Camera di Consiglio era stato il piú severo nelle richieste, e che piú volte era stato messo in minoranza, e che aveva chiesto piú anni di carcere e almeno due ergastoli in piú...
A questo punto è stato raggiunto il punto piú basso dell’amministrazione della giustizia nei processi di mafia di questi dieci anni, anche piú basso e scandaloso di quello dei processi a Contrada, a Carnevale, a Mannino, a Musotto, a Andreotti. Dopo essere passati dal processo all’imputato al processo alla sentenza, sono passati a processare le motivazioni della sentenza: va bene, avrai anche chiesto in Camera di Consiglio piú condanne, piú anni di carcere, piú ergastoli, ma hai anche assolto, e con quali motivazioni hai assolto quelli che hai assolti? Questo è il vero reato commesso da Prinzivalli (come è stato quello rinfacciato a Carnevale), come ha motivato le assoluzioni. Prinzivalli, come Carnevale, possono anche non aver voluto favorire questo o quel mafioso, ma con le motivazioni delle loro assoluzioni, demolendo i grandi teoremi dell’Antimafia, come il teorema Buscetta e quello della Cupola, della Commissione di Cosa nostra che tutto sa e tutto decide e di tutto deve rispondere, hanno in definitiva favorito Cosa nostra nel suo complesso. Nel caso di Prinzivalli e della sua sentenza, non è vero nemmeno questo, Prinzivalli non ha contestato nella sua sentenza l’organizzazione verticistica e accentrata di Cosa nostra, ma ha detto un’altra cosa: «I membri della Cupola – ha scritto nella sentenza del maxi ter – non possono essere condannati per un certo delitto in mancanza di un consenso, di una partecipazione, di una decisione da loro presa in merito al delitto stesso». Non sono parole per qualsiasi persona onesta e ragionevole, come aveva detto Sciascia, sottoscriverebbe? Non le ha sottoscritte il tribunale presieduto dalla signora Sabatino, che per queste parole ha condannato Giuseppe Prinzivalli a dieci anni di galera. Era l’aprile del 1988. Due anni dopo, in appello, gli hanno fatto uno sconto e gli hanno ridotto la pena a otto anni. Poi la Cassazione ha annullato la sentenza con rinvio e l’anno scorso il processo è tornato in appello. E venerdí scorso Prinzivalli è stato assolto per non aver commesso il fatto. «Sono stati spazzati via - ha dichiarato uno degli avvocati di Prinzivalli, che ormai è in pensione e ha atteso la sentenza a casa perché ancora convalescente da una grave malattia - quindici anni di maldestre congetture e illazioni di un giudice onesto». Peccato che l’hanno saputo in pochi.