Draghi, what else?
Se il presidente della Repubblica venisse eletto dagli italiani, Mario Draghi vincerebbe senza neppure il bisogno di una campagna elettorale. Se a scegliere il nostro Capo dello Stato fossero le cancellerie occidentali, la Nato o l’Unione europea, il risultato non cambierebbe. E sarebbe identico se a votare fossero i mercati. Ci troviamo dunque nella felice condizione in cui l’uomo della strada, le tecnocrazie sovranazionali, la finanza internazionale e i governi alleati condividono lo stesso candidato.
Ma al voto, come sappiamo, sono chiamati mille grandi elettori espressione dei partiti politici: e questo, naturalmente, complica le cose. Perché ai partiti Draghi non piace neanche un po’: si sono risolti ad appoggiarlo perché hanno fatto bancarotta, e lo detestano proprio perché ricorda loro ogni giorno quanto siano incapaci, inetti e sostanzialmente inutili.
In questa legislatura i partiti hanno dato vita a due governi opposti, di estrema destra e di estrema sinistra, guidati entrambi dallo stesso ineffabile premier, entrambi rovinosamente caduti per manifesta incapacità: così comportandosi, hanno dimostrato di non essere in grado di governare il Paese. Per questo hanno subìto la scelta di Mattarella in favore di Draghi, per questo lo detestano, e per questo non vedono l’ora di sbarazzarsene.
Nei suoi termini essenziali, la battaglia per il Quirinale è una battaglia in cui i partiti si giocano l’osso del collo. O riescono a liberarsi di Draghi, e a riconquistare così una parte almeno del potere di cui disponevano, oppure dovranno sopportare per sette lunghi anni l’ingombrante presenza di un uomo che, prima di ogni altra cosa, è più bravo di loro a fare il loro mestiere.
Per un paradosso curioso, ma non inusuale, anni e anni di demolizione del merito, di “uno vale uno”, di populismo e di diffuso qualunquismo hanno prodotto un effetto opposto: l’unica forza di Draghi, infatti, è il suo curriculum. E gli italiani, abituati da un quarto di secolo a farsi intortare dal fenomeno di turno, hanno improvvisamente scoperto quanto contino il merito, le capacità, la preparazione e la cultura – forse perché la salute e i soldi valgono troppo per essere affidati ad una mutevole compagnia di saltimbanchi.
Nessun partito italiano ha oggi una visione del Paese, del suo orizzonte, del suo ruolo nel mondo: e questa non è una buona notizia. L’esangue debolezza del sistema politico è ormai un rischio strutturale che preoccupa le imprese e i mercati, l’Europa e il “partito del Pil”, e più in generale chiunque abbia la testa sulle spalle.
La verità, purtroppo, è semplice: i partiti italiani possono riprendersi spazi anche ampi di potere, ma non sono in grado di gestirlo. Vorrebbero al Quirinale uno di loro – uno di cui abbiano il numero di telefono, come amano sintetizzare in queste settimane molti grandi elettori – in nome di quel primato della politica che, in sé sacrosanto, è stato polverizzato in questi anni proprio dai partiti. Se infatti sono i primi ad inveire contro la “Casta”, ad autodenunciarsi come ladri e ad autoridursi le “poltrone” per conquistare qualche voto, perché mai gli si dovrebbe affidare il governo del Paese?
Il suicidio rituale della politica richiederebbe un periodo di rigenerazione e di rifondazione che nessuno oggi sembra in grado neppure di immaginare. L’unico riflesso condizionato che scatta – l’ultimo, quello decisivo – è l’istinto di sopravvivenza del ceto politico, che si sente giustamente minacciato da un alieno, stimato sì in tutto il mondo, ma di cui non ha il numero di telefono.
I partiti faranno di tutto per sbarrare a Draghi la strada del Quirinale: e, dal loro punto di vista, hanno tutte le ragioni per provarci. Tuttavia non hanno un candidato condiviso e sanno che una maggioranza presidenziale diversa da quella che regge il governo aprirebbe le porte alla crisi e alle elezioni, volute forse da qualche leader ma certamente temute come la peste dalla stragrande maggioranza dei parlamentari in carica.
È dunque probabile che anche questa volta i partiti escano sconfitti, e Draghi entri al Quirinale. Se capissero ancora di politica, sarebbero felici di questo esito: perché all’ombra di una presidenza solida e rispettata potrebbero avviare quel processo di profonda rigenerazione che, solo, consentirebbe loro di riprendersi prima o poi il potere e il rispetto perduti.
F.R.