By: GZ on Martedì 03 Giugno 2003 14:52
L'italia che lavora ci sarebbe, ma è in frenata. Questo è un pezzo giornalistico, ma la realtà della concorrenza Cina è così massiccia e il suo impatto così devastante che lo si comincia a cogliere.
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FRENATA DELL´INDUSTRIA
La Cina è troppo vicina
Concorrenza feroce. Euro forte. Costi alti. Viaggio nella piccola impresa. Che fa i conti con una crisi finora sconosciuta
di Maurizio Maggi - espresso
Le scarpe e le moto, le piastrelle e le macchine utensili, l´abbigliamento e i mobili, la rubinetteria e l´oreficeria. Roccaforti del made in Italy col fiato grosso e, spesso, il rosso in bilancio. Il crollo del dollaro è stato l´amara ciliegina su una torta che aveva un cattivo sapore. Perché sulle economie occidentali, tradizionale sbocco delle esportazioni italiane, già in fase ciclica negativa, si sono abbattute prima la guerra poi la polmonite atipica. E intanto, sale l´onda della concorrenza asiatica, dell´Est europeo, in alcuni campi del Giappone, avvantaggiato dal calo dello yen nei confronti dell´euro.
Per molte piccole e medie aziende, la gran parte del sistema produttivo italiano, per la prima volta le lamentele contro la perdita di competitività si riflettono nel calo di fatturato e nella compressione dei margini di redditività. "Il 2002 è stato il secondo anno chiuso in perdita in trent´anni di attività e il primo con una diminuzione dei ricavi così massiccia", dice Agostino Roverato, titolare della Vior, industria orafa di Vicenza. "Esportiamo tutta la produzione, pari a circa 20 milioni di euro, per il 70-80 per cento nell´area del dollaro. Subiamo l´aggressiva competizione di paesi come la Thailandia, Hong Kong e anche il Sudafrica, che non pagano dazio negli Usa mentre i nostri prodotti hanno imposte del 5,2 per cento. I cinesi ci copiano e la fanno franca. Non ho mai visto un periodo in cui si concentrano così tanti fattori negativi".
Gli fa eco, da Bari, l´industriale meccanico Michele Vinci, che con la Masmec fa macchine per la componentistica per auto (come quelle per montare e verificare il funzionamento della frizione): "Rispetto al budget che ci eravamo dati siamo sotto del 20 per cento: non mi era mai capitato in 23 anni di lavoro. Fino all´anno scorso, non riuscivamo a stare dietro alle commesse. Stiamo partecipando a una gara per una fornitura negli Stati Uniti: dall´inizio della procedura il dollaro è calato del 25 per cento e dubito che riusciremo a conquistare l´ordinativo". Nessuna prospettiva di fatturato in crescita neppure per la Vir (valvole a sfera), l´impresa del presidente dell´Anima, l´associazione delle industrie meccaniche e affini, Savinio Rizzio, che è anche il numero uno della Confindustria in Piemonte. "Rimarremo sui 25 milioni del 2002, la stessa quota del 2000, o forse scenderemo". Sul banco degli imputati, Rizzio piazza la solita concorrenza cinese - un vero incubo, ormai, per molti industriali - e il dollaro svalutato. "Dal Far East e dalla Cina in particolare ci aggrediscono ovunque: un giorno mi chiama il nostro distributore in Giordania e Siria e mi accusa di aver venduto la stessa valvola a un suo concorrente a metà prezzo. Ebbene, quel manufatto era un´imitazione". Alberto Tacchella, che in provincia di Alessandria fabbrica attrezzature per produrre alberi motore per le auto, e nel 2002 ha fatturato un po´ di meno e ridotto l´utile al lumicino, se la prende invece con la disattenzione dello Stato: "Noi facciamo macchine ad alto contenuto tecnologico e dobbiamo investire in ricerca. Ma siamo piccoli, 32 milioni di euro di giro d´affari, e avremmo bisogno dell´aiuto delle università. I nostri concorrenti sono soprattutto tedeschi: in Germania, ci sono due o tre strutture dotate di diversi laboratori specializzati che affiancano imprese come la nostra nello sviluppo di nuove soluzioni. Da noi, tutto ciò non esiste".
Guarda con preoccupazione alla concorrenza della Germania anche Ettore Riello, uno dei big degli apparecchi per il riscaldamento (530 milioni di ricavi nel 2002, stabili rispetto al 2001). "I tedeschi sono ben radicati nell´attività industriale nell´Est europeo e benficiano di manodopera a costi inferiori. Li abbiamo seguiti, e anche noi ora produciamo in Polonia".
A rispondere all´offensiva della concorrenza asiatica, andando a produrre in loco, sta pensando Sandro Bertoli, amministratore delegato della Abert di Passirano, una delle più importanti aziende del distretto bresciano della posateria. Tra il 2000 e il 2002, il gruppo ha perso circa il 12 per cento del fatturato e i dipendenti sono calati da 200 a 170. "Riusciamo a tener botta solo nella fascia alta e quando i competitors sono italiani, ma quando l´attacco arriva da Cina, India e Vietnam c´è poco da fare. Anche se l´acciaio delle posate indiane ha solo l´uno per cento di nickel e il nostro almeno l´8 o 10 per cento".
Bertoli stava per firmare il contratto per una joint-venture in Cina. Lo scoppio della Sars ha bloccato l´operazione. Aggiunge l´industriale: "Non mi rende felice l´ipotesi di produrre nel Far East, ma non abbiamo alternative. Di sicuro, comunque, rispetteremo le norme di sicurezza che adottiamo in Italia, di cui in Oriente se ne infischiano: ho visto con i miei occhi effettuare a mani nude, con gli acidi, il cosiddetto ´decappaggio´, quello che serve a togliere il nero dai coltelli forgiati". Anche il presidente degli industriali di Brescia, Aldo Bonomi, che produce rubinetti a Lumezzane e ricava dall´export la metà del suo fatturato, vede nella delocalizzazione una delle due possibili vie d´uscita alla crisi della piccola e media industria bresciana. L´altra? "La corsa verso prodotti nuovi, che non ci possono copiare facilmente".
In effetti, è un brutto momento in Italia per chi fabbrica prodotti poco sofisticati. Spiega Nello Ferraroni, presidente dell´Associazione piccola industria di Reggio Emilia: "È molto penalizzato chi opera nella parte meno nobile della filiera produttiva. I costruttori di macchine strozzano i fornitori di componenti a basso valore unitario, sui quali la pressione della concorrenza del Far East e anche dell´Est europeo è incalzante. Ormai, comprano pezzi all´estero anche aziende di 60-70 dipendenti che fino a qualche anno fa non ci pensavano assolutamente". Della troppo timida delocalizzazione dei componentisti si lamenta Federico Minoli, presidente della Ducati di Bologna. "Il 92 per cento delle nostre moto è prodotto con materiali che compriamo. I fornitori italiani hanno prezzi alti perché producono qui e noi siamo troppo piccoli per andare a prendere, per esempio, i cablaggi elettrici a Taiwan. Risultato: i giapponesi spendono la metà".
Guai ancora più grossi vivono i terzisti del distretto delle sedie della provincia di Udine: nel 2000 contava 1.200 aziende; ora sono meno di mille. Negli anni Settanta, molti dipendenti delle ditte più strutturate si sono messi in proprio. Adesso, sotto l´effetto della drastica contrazione dei prezzi, si assiste al fenomeno opposto: piccoli fabbricanti di componenti chiudono e tornano a lavorare per i più grandi. Qualche crepa incrina anche un altro pezzo forte del made in Italy, l´occhialeria. C´è un rivale odioso, ma nazionale: la contraffazione avviene in gran parte in Italia. E l´effetto dollaro: il gigante Luxottica nei primi tre mesi del 2003 ha perso il 20 per cento del fatturato. De Rigo, pur vendendo quasi tutto in Europa, ha visto l´utile 2002 dimezzarsi da 21,2 a 10,6 milioni di euro.
Non se la passa bene neppure il settore delle piastrelle, concentrato nelle aree di Modena e Reggio Emilia. Nel 2002 tutti gli indicatori hanno davanti il segno meno: flettono la produzione (del 5 per cento), le vendite sul mercato domestico (del 4,8 per cento), l´export (dello 0,7 per cento). Filippo Marazzi, a capo di una delle aziende più importanti (con 760 milioni di euro di giro d´affari), è convinto che ci sarà da soffrire anche nel 2004. Dice: "Nel 2002 abbiamo rinunciato a una crescita di fatturato, evitando di vendere in alcuni paesi europei, per salvaguardare i margini". Chi è grosso può anche difendersi così, ma in molti alzano bandiera bianca: nel 2002, il 3 per cento delle aziende del settore ha chiuso i battenti. Lo dice l´Assopiastrelle, sempre più inviperita contro quella che ritiene una subdola forma di competizione: mattonelle fabbricate in Cina ma confezionate in Italia e vendute senza la scritta ´made in China´.
Annus horribilis, il 2002, pure per le calzature. "Da dieci anni non andavamo così male", ammette Leonardo Soana, il direttore generale dell´Anci, l´associazione dei fabbricanti di scarpe. Ma è tutto il comparto dell´abbigliamento a vivere un momento drammatico. E se uno dei gruppi leader come Ermenegildo Zegna si augura di ripetere un 2002 contrassegnato dal calo del fatturato del 3,6 per cento e dell´utile netto del 10,9 per cento, per la sessantina di aziende che fanno parte di Ideabiella, tutte attive nel tessile maschile di fascia alta, il fatturato complessivo è calato del 9 per cento. E l´export, falcidiato dalla discesa del dollaro, del 10 per cento. Simbolo dell´industria comasca della seta, la Ratti (quotata in Borsa) ha iniziato il 2003 esattamente come il 2002: perde 3,5 milioni di euro prima della tasse quest´anno, contro i 2,3 milioni dell´anno passato.
Dice il presidente degli industriali pratesi, l´imprenditore tessile Mario Maselli della Emmetex: "Il giro d´affari del mio gruppo, che ha cento dipendenti, è diminuito del 5 per cento e il distretto di Prato è andato ancora peggio. Il mio utile è da tre anni che scende, e si è ridotto ai minimi. E io esporto l´80 per cento della merce. So già che il 2003 sarà ancora più duro. Ci tocca limare al massimo i nostri margini operativi. E i bilanci non se lo possono permettere finché dobbiamo combattere con chi, per esempio i cinesi, non rispetta né i lavoratori né l´ambiente". Ai piccoli e ai medi imprenditori fa molto più paura la Cina neo-capitalista di oggi di quella collettivista del presidente Mao. Che cercava di esportare il comunismo, non le valvole né i filati.