sante parole (vox clamantis in deserto)
L'Italia ha un indice di libertà economica pari a 62,5 che la pone al 36°posto tra i 44 paesi della regione europea
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Non solo i paesi più liberi sono quelli più ricchi, ma sono anche quelli con il minor divario tra ricchi e poveri.
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Nel nostro paese il basso livello di libertà economica ha radici culturali, siamo intrisi di ideologie collettiviste e oscilliamo tra illusioni socialiste e fascinazioni totalitarie. Ciò si evince in parte anche dall’impalcatura della nostra costituzione, molto più attenta al sociale che alla libertà, più sensibile alla redistribuzione di ricchezza che alla sua generazione.
Non abbiamo mai capito la portata sociale del capitalismo e quali siano i vantaggi del libero mercato, non riteniamo inviolabile la proprietà privata, non abbiamo un’etica della libertà.
E tuttavia, non possediamo neanche un’etica individuale della solidarietà; preferiamo che sia la collettività a essere solidale attraverso l’intervento dello stato.
Tale visione della società attraverso la lente delle ideologie collettiviste ha trovato la perfetta sintesi nella celebrazione e idealizzazione dello stato repubblicano, che deve assicurare il bene comune. Anzi è il solo che può farlo. Lo stato non deve solo aiutare e assistere i bisognosi, ma deve anche garantire i diritti positivi, assicurare la giustizia, risolvere i problemi sociali, intervenire in economia, creare posti di lavoro e conseguire l’equità sociale. L’individuo ne esce così deresponsabilizzato.
E’ sulla base di tali convinzioni che lo stato è diventato ipertrofico, è così che ha preso sempre di più il controllo delle nostre vite.
Oggi il nostro PIL è costituito al 50% da spesa pubblica, per lo più inefficiente, gestita e alimentata da una burocrazia corrotta e oppressiva. La crescita continua della spesa è stata una costante della nostra democrazia ed è avvenuta senza controllo. Per finanziarla sono stati usati tutti i mezzi possibili:
- tassazione (palese e nascosta), che ha fatto raddoppiare il gettito fiscale negli ultimi venti anni a parità di PIL;
- utilizzo del deficit di bilancio, che ha portato l’indebitamento al 132% del PIL, il più alto dopo la Grecia;
- inflazione monetaria, a cui si è fatto indiscriminato ricorso ai tempi della sovranità monetaria della Lira (a cui oggi molti partiti desiderano tornare solo per sfruttare nuovamente questa opportunità).
La crescita delle dimensioni dello stato, ha determinato il parallelo progressivo deterioramento e infiacchimento delle capacità e dello spirito imprenditoriale, la distruzione di capitale, l’innalzamento del tasso di preferenza temporale con il conseguente bisogno di gratificazione immediata, e la riduzione dell’attitudine al risparmio.
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E nonostante ciò, il paradosso: più lo stato cresce e diventa opprimente, più la gente attribuisce ad un inesistente liberismo economico la causa dei suoi mali. La mancanza di cultura liberale ed economica attribuisce infatti al libero mercato e al capitalismo gli attributi di egoismo, anarchia e disordine, un luogo dove i più deboli sono sopraffatti. La crescita delle disuguaglianze sarebbe quindi il risultato del liberismo selvaggio all’opera. Esattamente l’opposto della realtà.
Ma in un mondo soggetto a regole economiche che non si comprendono, sempre più incerto e difficile, cresce la paura di non essere in grado di affrontare le sfide future, ed ecco che così diventa più comprensibile la crescente richiesta allo stato di tutele, regole, guida e aiuto.
Viene pertanto chiesto alla politica l’opposto di quello che servirebbe. Serve meno stato, che vuol dire meno spesa, meno tasse, meno debito, più libero mercato. La gente chiede più stato, e cioè più spesa, più tasse, più debito, più dirigismo economico.
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I partiti, da parte loro, rispondono a tale richiesta offrendo tutti, unanimemente, una ricetta statalista, assistenzialista e dirigista; e professando tutti, con sfumature diverse, una socialdemocrazia più o meno totalitaria. Il popolo li asseconda, valutando le promesse elettorali in funzione dei propri personali benefici, nella fallace credenza che tali promesse possano essere finanziate senza conseguenze dalla collettività. E’ uno dei grandi difetti della democrazia, il fatto che alimenti l’illusione che “tutti possano vivere sulle spalle di tutti gli altri”. E noi siamo più esposti di altri popoli a credere a questa illusione.