By: lutrom on Sabato 18 Agosto 2007 18:19
E ti meravigli, Esteban??
L'Italia è il paese delle corporazioni, di tanti che sono solo figlio di..., della mafia (che altro non è che "famiglione" allargate, tanti clan in competizione feroce), il paese dei mammoni cioè delle famiglie che mantengono i figli, "geni incompresi" ma con poca voglia di lavorare, fino a quaranta anni e oltre, l'Italia è il paese dei baroni universitari (con cattedre che si tramandano di padre in figlio e di padre in... amante), è il paese dove hai case - il luogo della famiglia - spesso bellissime, curate e pulitissime (vi assicuro più che in molti paesi esteri, anche se sono paesi molto più ricchi dell'Italia), ma, appena in Italia vai fuori delle case private, vedi luoghi pubblici (giardini, strade, scuole, ecc.) sporchi e poco curati perché non sono il luogo di nessuna famiglia ma il luogo di tutti (che in Italia significa di nessuno: e con questa mentalità, con questo scarso rispetto del bene pubblico, il il social-comunismo in Italia può produrre forse anche più sciagure che in altri paesi).
Qui sotto ho incollato un vecchio articolo che, credo, riassuma abbastanza bene certi aspetti della realtà italiana.
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I figli sulla scia dei padri
Così il lavoro è bloccato
Ingegneri, medici, notai, architetti ad alto tasso di "eredità". "Scelta comoda e non rischiosa. Fuori con la crisi è tutto più difficile
www.corriere.it (dicembre 2003)
Sapreste indovinare che lavoro fanno i figli dei presidenti degli Ordini degli Ingegneri, dei Notai e degli Architetti? Risposta: rispettivamente l’ingegnere, il notaio e l’architetto. Guai però a classificare il fenomeno come mero nepotismo, stavolta è la testimonianza di qualcosa di più profondo, del fatto che in Italia i processi di mobilità sociale sono bloccati da diversi lustri. La scuola è poco selettiva e finisce per riprodurre le disuguaglianze di partenza, il mercato del lavoro è rigido e così la strada maestra diventa fare il lavoro di papà o mamma. E non vale solo per i big delle professioni ma anche per l’avvocato o il medico di provincia. «Ad occhio il 50% dei figli di ingegneri sceglie la strada del genitore - racconta il presidente dell’Ordine Sergio Polese -. Il nostro settore, a differenza di altri, attira occupazione e quindi per i giovani diventa una scelta di praticità». Aggiunge Antonio Mascheroni, presidente del Consiglio nazionale del Notariato (4.700 iscritti): «Abbiamo fatto un’indagine: circa il 21% dei figli di notai fa lo stesso lavoro del padre. Il dato è in aumento, dieci anni fa eravamo al 18%. Vale anche per due miei figli che lavorano nel mio studio a Monza, mia figlia invece ha provato il concorso due volte e poi ha rinunciato». Dati non ne ha raccolti il presidente dei 108 mila architetti iscritti all’Ordine, Raffaele Sirica, ma non si tira indietro: «Io stesso ho condizionato la scelta di mia figlia. Oggi al di fuori dell’ambito professionale che frequentiamo è tutto più difficile e viene naturale far percorrere ai figli la strada già aperta da noi. E li agevoliamo con consigli, libri, tavoli da disegno e conoscenze informatiche». E i medici? Il tasso di ereditarietà professionale è al 35-40% e lo sostiene il presidente della Federazione nazionale medici, chirurghi e odontoiatri Giuseppe Del Barone (350 mila iscritti). Non potevamo trascurare i figli dei giornalisti. Per Paolo Murialdi, storico della professione, anche tra le penne il passaggio di testimone padre-figlio è oggi in forte aumento, «è una scelta logica e naturale, comoda e tranquilla» salvo che poi il rampollo sappia tenere alta la firma di famiglia. Anche per effetto dei nuovi arrivati gli Ordini in Italia continuano a prosperare con 1,7 milioni di aderenti. Notevole il boom degli architetti che in soli 12 mesi sono aumentati dell’8,6% e dei notai (»6,2%).
LA CORSIA PREFERENZIALE - Vista dalla parte dei figli l’idea di percorrere lo stesso sentiero di papà è una scelta sofferta. Qualcuno, per sfuggire all’ineluttabile destino, si è lanciato persino in tv. Alessandro Lukas, 29 anni, uno dei protagonisti del Grande Fratello 2, dopo l’ubriacatura mediatica è tornato nello studio di odontoiatria del padre a Napoli. «Il lavoro in tv sarebbe stato un part time, meglio non rischiare e fare una scelta più comoda. In tempi di crisi globale è quasi ovvio». Edoardo Badano, 35 anni, figlio di Tomaso, architetto il padre e architetto il figlio, aveva coltivato altre idee, magari fare il fisico o il biologo. Poi «inconsciamente» ha prevalso la possibilità di sfruttare «la corsia preferenziale», anche se a modo suo. Da Genova è andato a studiare a Parigi e ritornato sotto la Lanterna ha comunque aperto uno studio tutto suo. Federica Marconi è anche lei architetto a Genova nello studio di suo padre Vittorugo. «Lavorare con un genitore può essere molto difficile, la convenienza economica e la facilità con cui si trova un lavoro devono passare sotto le forche caudine dei rispettivi caratteri. Nelle libere professioni oggi puoi iniziare il mestiere solo se conosci qualcuno».
L’ereditarietà in diversi casi non è spontanea, non si ripete solo per il vantaggio di poter usare il capitale sociale di relazioni e di clienti accumulato dalla generazione precedente, ma è addirittura contrattualizzata. Alla Sea di Milano come alla Fincantieri di Castellammare di Stabia è stata sancita la staffetta padri-figli: la possibilità di lasciare il posto alla prole ha la benedizione del sindacato come incentivo per prepensionare i lavoratori in esubero. Si tratta del retaggio di una vecchia tradizione italiana che in passato ha trovato applicazione alle Poste, in Rai, in Telecom e in diverse banche del Centro-Nord. Anche dove non è stata contrattualizzata la trasmissione della poltrona è in voga. Secondo un’indagine pubblicata sul quindicinale universitario Ateneapoli nella facoltà di Economia dell’università Federico II di Napoli a maggio del 2002, il 16,5% dei docenti era in rapporto di parentela con un collega. In altre facoltà la percentuale di familismo accademico sarebbe ancora doppia, ma non esistono rilevazioni puntuali.
IL PRIMO LAUREATO - Quella italiana è dunque una società ingessata. Per ritrovare negli annali un vero ciclo di mobilità ascendente bisogna risalire agli anni ’60. L’ordinamento scolastico fu travolto dalla richiesta di nuova istruzione, molte famiglie ebbero il loro primo laureato, cambiarono le regole di funzionamento del mercato del lavoro e sorsero nuove professioni. Per avere un altro «mezzo ciclo» di mobilità bisogna arrivare agli anni ’80 con la prima terziarizzazione dell’industria e la nascita di nuove professionalità dell’informatica, della consulenza, del design e della comunicazione. Se la mobilità degli anni ’60 diede impulso al Sessantotto, quella di venti anni dopo permise il boom di Milano. Oggi una scuola tutt’altro che meritocratica impedisce i sorpassi e si limita a riperpetuare la condizione di base. In più le rappresentanze sociali e politiche riflettono più le ragioni degli adulti che quelle dei giovani. Spiega Antonio Schizzerotto, il sociologo italiano che con più continuità ha studiato le dinamiche della mobilità: «I soggetti che oggi hanno tra i 18 e i 40 anni rappresentano le uniche generazioni nate nel secolo trascorso a sperimentare un arretramento delle proprie chances di vita rispetto ai propri padri». La dimostrazione sta in un’elaborazione che il team di Schizzerotto presso le Università Bicocca di Milano, Trento e Bologna ha fatto per il Corriere estrapolando i dati dalla ricerca Ilfi, l’indagine che in tre ondate (’97, ’99 e 2001) ha coinvolto 4.700 famiglie. Su 100 figli di Cipputi ben 71 finiscono per restare nelle classi subalterne o indossare la tuta del padre. Solo il 10% diventa impiegato di concetto e il 13% mette su un’attività di lavoro autonomo (artigiano o commerciante). Sei figli di operai su cento riescono a sfondare: tre diventano liberi professionisti, due alti dirigenti e uno addirittura imprenditore. Passiamo agli impiegati di concetto: il 21% resta al posto del genitore, il 10% diventa libero professionista, il 6% alto dirigente e solo uno si scopre imprenditore. I figli degli industriali al 12% fanno il lavoro del padre, al 16% diventano liberi professionisti e sempre in quota analoga scendono di un gradino nella scala sociale e diventano artigiani, commercianti o comunque reggono un’impresa con meno di 15 dipendenti.
NORD OVEST E NORD EST - A conclusioni non dissimili è giunto un recentissimo studio sui laureati residenti ad Alessandria. La prima strozzatura la si trova al momento della scelta della facoltà. I figli di liberi professionisti scelgono in automatico o quasi, le donne provenienti dalle classi più basse optano sovente per lauree umanistiche e al termine degli studi finiscono per trovare occupazioni non corrispondenti. Anche chi ha fatto lettere o psicologia va a fare la segretaria. «Il 45% dei laureati presi in esame - spiega Claudio Ceravolo, ricercatore dell’Università del Piemonte Orientale - ha trovato il primo lavoro facendo ricorso a canali informali, mentre i pochi casi di mobilità ascendente sono dovuti non al funzionamento dei meccanismi di mercato ma all’aiuto di un docente che ha creduto nelle capacità di un suo studente».
L’ingessatura sociale coinvolge anche le zone del Paese che nel recente passato sono state più dinamiche e liberiste. Nel Nord Est tantissimi operai sono diventati piccoli imprenditori, sovente grazie a eventi particolari (uno studio sul distretto di Montebelluna dimostra che è stato il boom della scarpa dopo-sci a produrre il fenomeno). I loro figli spesso però sono tornati a fare gli operai e comunque se lo stock di tute blu diventate padroni è ancora consistente (il 58% degli imprenditori secondo la Fondazione Nord Est viene dal basso) non è così per i flussi. Oggi diventare industriale in un mercato dove la competizione sulle produzioni a basso valore aggiunto è diventata feroce, è un’avventura che fa tremare i polsi.