By: Moderatore on Lunedì 24 Gennaio 2005 16:01
^Stefano Beraldo spiega la scelta di De’ Longhi#http://www.corriere.it/edicola/economia.jsp?path=TUTTI_GLI_ARTICOLI&doc=MOR3^ nel fuoco di una battaglia sindacale destinata a fare scuola. Tante aziende hanno le valigie pronte
Torna ora da un viaggio negli Stati Uniti e in Cina. «E sa cosa le dico? Che noi eravamo l'ultimo giapponese rimasto a combattere nella foresta, pensando di poter produrre in casa. Ma lo sa che Black&Decker, il nostro principale concorrente negli Usa, lì non batte più un chiodo? Tutto in Cina, fa. Mi creda, per De' Longhi questa è una svolta epocale, che consentirà di mantenere un'azienda leader che investe e cresce. Non l'avessimo fatto, saremmo crollati. E non dico di aspettarmi un premio per questo, sapendo io per primo quant'è doloroso licenziare per andare a produrre altrove. Ma almeno che si guardi con obiettività a quel che sta succedendo nel mondo».
Puntiglioso, lucido, appassionato. Volitivo al limite della guasconeria. Per niente sulla difensiva, certo com'è di aver fatto il bene dell'azienda, dipendenti compresi: i 2650 che resteranno dopo il «dimagrimento» di 650 unità che ha già causato i blocchi stradali fuori dei cancelli. Stefano Beraldo, 47 anni, da quattro amministratore delegato di De' Longhi (che ha guidato in Borsa), un solido pedigree manageriale in Benetton e Gs, è ovviamente consapevole che un’azienda che licenzia avendo i conti in attivo, per spostare la produzione in Cina, diventa un caso nazionale. E però non arretra d'un millimetro: «Scusi, avrei dovuto attendere il disastro per agire? Il mio compito è capirlo prima, non dopo». Alla vigilia di una vertenza sindacale che si preannuncia aspra e farà scuola, perché influenzerà tutte quelle analoghe che seguiranno in Italia in tempi di delocalizzazioni ormai irrefrenabili in Estremo Oriente, il capoazienda interrompe un lungo silenzio e accetta per la prima volta di analizzare lo scenario e spiegare le impopolari scelte aziendali al Corriere Economia .
Il caso De' Longhi va infatti ben al di là della vicenda del gruppo e rischia di diventare l'emblema di un «addio all'Italia» della parte migliore del sistema produttivo nazionale. Campione del Nordest specializzato nella climatizzazione e nei piccoli elettrodomestici, il gruppo è leader mondiale nel condizionamento portatile e nei radiatori a olio, nonché leader europeo o italiano in pressoché tutti gli altri segmenti in cui opera. A fine settembre registrava ricavi netti e margine operativo in crescita, e secondo gli analisti finanziari ha chiuso il 2004 con fatturato e redditività in linea con l'anno precedente o addirittura migliori: erano stati rispettivamente 1.278 milioni di euro di ricavi e 151 di margine lordo nel 2003. In Cina il gruppo ha due poli produttivi nel Guangdong, di cui uno ereditato dalla controllata Kenwood, e fabbrica circa il 22% del prodotto con 4.700 dipendenti. Dopo la riorganizzazione avviata con i 650 contestatissimi esuberi (preceduti da 150 nello stabilimento di Ampezzo in Carnia), si punta a elevare quella percentuale fino al 70%. In Italia il gruppo ha toccato il picco di addetti nel 2002 (3.700), scendendo ai 2.650 previsti quest'anno. Un processo che Beraldo giudica ineluttabile non solo per De' Longhi, ma per l'intero sistema Italia.
Davvero non avevate altra scelta?
«No, in assoluto. Abbiamo reagito tardivamente a uno scenario di fattori negativi. Affrontiamo costi crescenti: l'acciaio e la plastica sono saliti di prezzo, i trasporti pure e il costo del lavoro in Italia è rigido. Sulle vendite si è abbattuto il crollo del dollaro: il cambio si è mangiato più di metà della nostra crescita. Davanti a concorrenti americani che ormai producono tutto in Cina a costi inferiori, e che viceversa si sono grandemente avvantaggiati dal cambio, non potevamo che adeguarci. Era un confronto impari e insostenibile. Non a caso nei settori in cui competiamo ad armi pari come i grandi condizionatori, che non subiscono la concorrenza cinese, investiano e assumiamo in Italia».
Cosa resterà in Italia?
«Tutte le funzioni strategiche per prodotti altamente innovativi come i nostri: ricerca e sviluppo, ingegneristica, design, marketing, le produzioni qualitative».
Non sareste riusciti a tener duro, sfruttando proprio il differenziale creativo?
«Impossibile. Avremmo perso quote di mercato ovunque, mettendo a repentaglio l'azienda. Le faccio un esempio: i condizionatori a muro. Abbiamo continuato a produrli qui fino al 2001. Poi, scesi i prezzi del 20%, abbiamo trasferito la produzione in Cina. Se non l'avessimo fatto, oggi che i prezzi sono scesi del 70% saremmo già fuori dal mercato, e avremmo licenziato in Italia altre 300 persone. Sottolineo che noi, a differenza di altri, andiamo lì con il nostro know-how e ce lo teniamo stretto. Altri, americani come pure italiani, lo cedono insegnando ai cinesi come farci fuori. E guardi che il problema non è solo il costo del lavoro: riguarda l'intero sistema Paese».
Cioè?
«La vera variabile non è la manodopera, che incide tra il 10% e il 20%. Il punto è che in Cina è facilitata l'attività industriale in sé: le strade funzionano, i porti pure, non c'è la tangenziale di Mestre che ci costrinse a chiudere uno stabilimento a Mira, l'indotto e la componentistica rispondono a ogni esigenza. Costa meno tutto e funziona meglio. E il confronto è perdente persino in Europa. Con Kenwood abbiamo molti addetti in Gran Bretagna. Ma lei sa che a parità di mansioni costano il 35% in meno di quelli italiani, pur percependo uno stipendio più alto?».
Da quanto dice, si ricavano prospettive funeste per il sistema industriale italiano.
«La situazione è preoccupante, non c'è dubbio. Dollaro a parte, la nostra capacità di reagire dipende da fattori strutturali: flessibilità del lavoro, viabilità, fiscalità, burocrazia. Nulla che si risolva in breve tempo. Dobbiamo prendere atto che il fenomeno non è marginale. E pensare di proteggersi con dazi e barriere sarebbe tardivo e antistorico».