By: Mr.Fog on Lunedì 27 Ottobre 2003 19:18
Da "L'ECO DI BERGAMO" di domenica...
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LA CINA
È PROPRIO VICINA
E IO COSA FACCIO
CON LA MIA DITTA?
gregio Direttore,
ho sempre trovato molto
interessanti i numerosi
articoli di carattere
economico che vengono pubblicati
sul suo giornale ed è per questo
motivo che mi rivolgo a lei per
sottoporle un quesito semplice, ma
per me molto importante.
In questa così decantata era della
globalizzazione, di cui in tanti ci
siamo riempiti la bocca, da illustri
economisti ad affermati politici, c’è
ancora spazio per la piccola e
media impresa a gestione
familiare, per il semplice negozio,
per tutti quei lavori artigianali che
fanno parte della nostra cultura,
ma che ad uno a uno stanno
scomparendo? E qual è, secondo
lei, il modello di sviluppo al quale
dobbiamo guardare per il futuro?
La sola logica del profitto, o
dobbiamo tutelare anche altri
valori?
Vede, se in un primo momento
nutrivo grande speranza in questo
progetto globale che, secondo molti,
avrebbe dovuto distribuire più
benessere e più ricchezza grazie a
un mercato senza più confini, dove
le merci circolano liberamente, ora
mi rendo conto a mie spese che se
nelle intenzioni questo tipo di
sviluppo avrebbe dovuto portare
benefici, purtroppo rischia di
diventare la prima vera causa di
un declino lento ma inarrestabile
della nostra economia locale,
basata da anni sulla produzione di
articoli tessili e affini.
La ragione è molto semplice: come
si può competere con mercati dove
il costo della manodopera è 150
volte inferiore al nostro? Con
grande lungimiranza abbiamo
esportato tecnologia in grado di
rendere ancora più competitivi
questi Paesi non solo sul piano del
prodotto di basso costo, ma anche
sul piano della qualità.
Considerando poi che nel campo
tessile il costo della manodopera
incide per il 70%, il risultato è che
ormai nei magazzini all’ingrosso il
90% dei prodotti tessili è di
importazione. Spesso sento dire
che dobbiamo aumentare gli
investimenti, ma a che scopo e a
quale fine se comunque non
potremmo mai essere competitivi?
In altri settori, vedi quello
automobilistico, lo Stato è
intervenuto con politiche di
sostegno, ma evidentemente il
settore tessile, sia in campo
nazionale ma anche a livello
europeo, non è di primaria
importanza. La triste realtà è che
noi produttori siamo una razza in
via di estinzione e che niente e
nessuno potrà fermare questa
tendenza. Per anni siamo cresciuti
con molti sacrifici, ma anche con
soddisfazioni. Abbiamo dato e
creato ricchezza sia alle nostre
aziende sia ai nostri dipendenti,
che conosciamo tutti ad uno a uno,
conosciamo le loro famiglie e per
questa ragione ci sentiamo legati a
loro anche da un senso di
gratitudine.
Forse qualcuno mi potrebbe rinfacciare
di essere egoista nei confronti di Paesi che
hanno bisogno più di noi di crescere e svilupparsi,
ma noi a chi dobbiamo rendere
conto? Alla nostra gente, che pure ha diritto
di esistere ed è quella che poi in fin dei
conti fa la spesa, spende e consuma: ma se
questi a fine mese si trovano senza soldi in
busta paga, chi credete che andrà a comprare
questi prodotti non certo di primaria
necessità? Il cinese, il pakistano, l’indonesiano
o l’indiano? Dobbiamo diventare
tutti commercianti? Va bene , ma commerciare
è diverso dal produrre: la trasformazione
di un prodotto comporta un ciclo di attività
dalla filatura alla tessitura alla tintoria
e al finissaggio, dove lavorano parecchie
persone, senza dimenticare il terziario.
Per commerciare non c’è bisogno di molta
gente: si va, si compra e si vende. Tutto
è finalizzato a un rapido giro di denaro che
non tocca per niente la parte produttiva, se
non a volte marginalmente per qualche lavoro
di finissaggio. In poche parole: non si
crea ricchezza per la collettività. Alla faccia
della globalizzazzione, forse un giorno dovrò
dire basta. Certo, non succede niente:
un altro piccolo artigiano che smette non fa
notizia, a chi può importargliene? Tanto più
che si potrà sempre trovare un nuovo ipermercato
che apre grazie ai nostri soldi, ai
nostri risparmi che le banche si mangiano
in continuazione per distribuire a questi
grandi gruppi finanziari, per i quali la cosa
più importante sono gli utili di gestione. Quelli,
sì, a fine anno non possono mancare, anche
a scapito di toglierci l’unico bene prezioso
che ci è rimasto: la nostra salute e il
nostro lavoro.
E questo sarebbe il nuovo modello di sviluppo?
Che fregatura! Sono curioso di vedere
quale sarà nel prossimo anno il gettito
fiscale che lo Stato raccoglierà, visto che
nei primi mesi di quest’anno i dati indicano
un crollo del fatturato in tutti i settori, non
solo in quello tessile. Considerando che per
la maggior parte il denaro versato al fisco
arriva dalla piccola e media impresa, credo
che in futuro il governo dovrà inventarsi
nuove tasse che alla fine pagheranno i
soliti fessi. Recentemente sul vostro giornale
ho letto alcune interviste rilasciate da
famosi imprenditori locali, dalle cui dichiarazioni
si deduce che la paura nei confronti
dei prodotti importati non ha ragione di
esistere in quanto, grazie alla nostra abilità
e capacità, dobbiamo essere in grado di
creare nuovi articoli, nuovi modelli di alta
qualità capaci di imporsi sul mercato, per
la cui realizzazione non bisogna temere di
fare nuovi investimenti.
A parte il fatto che oggi il prodotto di qualità
lo sanno realizzare anche in quei Paesi,
ma poi, con tutto il rispetto, proprio loro
mi dovrebbero spiegare come mai stanno
smantellando a poco a poco il settore tessile
puntando decisamente in altri campi di
sviluppo: dal meccano-tessile alla chimica,
all’energia, ecc. In un’altra intervista, invece,
si legge che il problema tessile di per
sé non esiste, ma c’è soltanto un problema
di perdita occupazionale. Decisamente faccio
fatica a capire questo genere di affermazione,
in quanto da parte mia considero
primario il problema della perdita occupazionale
per il semplice fatto che nel momento
in cui un nostro operaio perde il posto di lavoro
e si trova con moglie e figli a carico da
mantenere è gia tanto se riesce ad arrivare
a fine mese con abbastanza soldi per andare
a fare la spesa. Figuriamoci poi come
potrebbe spendere altro denaro per acquistare
prodotti non di primaria necessità.
Famosi economisti dicono che imporre i
dazi doganali è anticommerciale, che va
contro le regole del libero mercato e che sarebbe
controproducente, considerando il fatto
che in futuro il mercato asiatico potrebbe
diventare potenzialmente appetibile. Ma
siamo sicuri che nel momento in cui una volta
raggiunto un sufficiente grado di ricchezza
costoro verranno da noi a comperare?
Permettetemi di avere qualche dubbio:
con il tasso di crescita attuale, nel giro
di pochi anni la Cina avrà sufficienti risorse
da sopperire senza difficoltà alle richieste
del mercato interno ed estero.
Recentemente ho ricevuto da parte dell’Associazione
Artigiani un fax dove vengo
invitato a partecipare a un convegno dove
si parla delle prospettive ed opportunità
per la piccola e media industria di internazionalizzarsi
sul mercato cinese, vista e considerata
l’enorme influenza che questo Paese
sta avendo sull’economia mondiale grazie
alla partecipazione di aziende già presenti
sul posto. Mi meraviglio del fatto che
vengano sostenute iniziative del genere da
parte dell’Associazione Artigiani. Anche ammesso
che uno decida di lasciare moglie e
figli per andare in Cina (il che per uno abituato
a mangiare polenta è alquanto difficile),
chi mi dà i soldi ? E poi cosa faccio con
i miei dipendenti? Porto in Cina anche loro?
Queste opportunità le può avere solo la grande
industria come già sta facendo. A me
non resta che stare alla finestra e sperare
che nella lista delle aziende che chiuderanno
a breve termine non ci sia anche la
mia.
Scusate se mi sono dilungato troppo, anche
in modo un po’ confuso. Di certo non tutti
saranno d’accordo con quanto ho scritto
ed è giusto così, ma mi premeva esprimere
queste considerazioni del tutto soggettive
con qualcuno che più di me ha la capacità
di dare risposte a queste mie preoccupazioni.
Gianmario Zambaiti
amministratore della Almatex di Leffe---------------------