By: lutrom on Sabato 15 Febbraio 2003 20:33
da www.tgfin.it
15-2-2003
Iraq: compagnie europee contro Usa
TotalFinaElf difende la sua posizione
La chiamano già la guerra del petrolio. La guerra che l'amministrazione Bush ha voluto "inventare" per gli interessi degli americani sui pozzi di oro nero di cui l'Iraq è pieno. Ma anche dall'altra parte, quella dei Paesi schierati contro l'aggressione all'Iraq, guidati da Francia, Germania e Russia, il business dell'oro nero è tutt'altro che secondario. E sembra proprio che a portare questi Paesi sulla linea della pace sia ancora il famigerato petrolio.
Perchè francesi e russi in prima linea vogliono appunto fermare l'avanzata degli interessi americani in terra d'Iraq, avanzata che un'eventuale guerra agevolerebbe alla grande. Insomma: da una parte la guerra degli interessi, dall'altra la pace degli interessi.
Ma vediamo nel dettaglio la mappa delle compagnie petrolifere che, schierate con gli oppositori della guerra, potrebbero essere minacciate da un inizio delle ostilità. Sicuramente in prima linea c'è il colosso francese TotalFinaElf, uno dei gruppi oggi più attivi nel Paese di Saddam insieme con la russa Lukoil, che proprio nei giorni scorsi ha visto volatilizzarsi all'improvviso un business molto redditizio: il governo iracheno le ha infatti tolto i permessi per sfruttare un grosso giacimento petrolifero.
A insidiare le posizioni di Total sono pronte le compagnie targate Usa ExxonMobile e ChevronTexaco, che hanno le loro basi in Kuwait, e già si preparano a oltrepassare le frontiere verso il vicino Stato dell'Iraq. Ma queste multinazionali si troveranno a far fronte a una forte concorrenza, che fa capo all'asse Parigi-Mosca.
Secondo informazioni raccolte dal quotidiano francese Le Monde tra fonti vicini al ministero del Petrolio dell'Iraq, sono una quarantina le società petrolifere che, dal '98 in poi, hanno stabilito forti contatti con le autorità irachene, per sfruttare le enormi risorse del Paese. Uno studio della Deutshce Bank, pubblicato lo scorso ottobre, ne ha identificate una ventina. I Russi sono in testa, con sei compagnie, seguiti da operatori venuti da ogni angolo del mondo: Indonesi, Malaysia, Algeria, Turchia, Cina, Vietnam, Giappone, Australia, ma anche Italia, Spagna, Regno Unito, Francia.
I giacimenti potenzialmente sfruttabili in Iraq sono di una ricchezza enorme. Moltissimi sono i pozzi che ancora non sono attivi. E su questi, che si trovano lunga la fronteiera con l'Arabia Saudita e la Giordania, secondo lo studio della Deutsche Bank, "nuove licenze di sfruttamento sono state proposte" dall'Iraq a gruppi come la spagnola Repsol, l'algerina Sonatrach, la malaysiana Petronas, l'indonesiana Pertamina.
Ma per mettere in funzione tutti questi giacimenti potenziali l'Iraq deve trovare tra i 30 e i 40 miliardi di dollari, secondo gli esperti. Ed ecco quindi spiegati i tentativi del Paese di attirare in tutti i modi gli investitori, malgrado l'embargo.
La francese Total, che opera nel paese fin dal lontano 1927, è riuscita a diventare per Bagdad un interlocutore privilegiato dalla fine del conflitto Iran-Iraq, nel 1988. "La guerra del Golfo, nel '90-'91, ha interrotto il dialogo con il governo iracheno. Dialogo che abbiamo ripreso nel '92 con l'intenzione di firmare un accordo da applicare nel momento in cui l'embargo sarà interrotto" dice Christophe de Margerie, direttore generale dell'esplorazione-produzione di Total. Il gruppo francese ha concentrato la sua attenzione su Bin-Umar e Majnoun, due giacimenti non ancora in attività, nella regione di Bassorah, la grande città del Sud del Paese, che si trova in una posizione strategica, non lontano dal solo sbocco marittimo dell'Iraq sul Golfo Persico.
Secondo Total queste riserve potranno rendere rispettivamente cinque miliardi e tra i sette e gli otto miliardi di barili. Ma il contratto ancora non è stato firmato.
Quanto alla russa Lukoil, ha concluso nel '99 un contratto valido sotto ogni forma. Alla compagnia è stato concesso lo sfruttamento del giacimento di Kurna Ovest, che dovrebbe rendere tra i cinque e gli otto miliardi di barili. Ma il contratto è stato rotto all'improvviso dal governo iracheno. "Negli ultimi tre anni (il contratto, come detto, è del '99), la società russa non ha investito un solo dollaro nel progetto, su cui avrebbe dovuto investire circa 200 milioni di dollari" ha spiegato il ministro iracheno ad interim del Petrolio Samir Abdel Aziz Al-Nejm.
"Siamo dentro un grande gioco politico" spiega Adam Sieminski, della Deutsche Bank. Nel suo rapporto dello scorso ottobre la banca tedesca, preveggente o ben informata, diceva che "l'obiettivo reale di questi accordi sembra più politico che economico. L'Iraq ha coinvolto la Francia, la Russia e la Cina in contratti di miliardi di dollari per avere buon gioco nell'influenzare i cinque membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu".
"Noi" dice de Margerie "confidiamo nei rapporti che abbiamo intessuto negli anni con il Paese. A meno che l'Iraq non venga messo sotto tutela, gli iracheni avranno diritto di parola. Noi abbiamo cercato di prenderci il nostro vantaggio. A partire dal momento in cui si passerà a un regime post-embargo, non c'è ragione perchè noi non partecipiamo allo sviluppop petrolifero del Paese. Noi abbiamo sempre rispettato l'embargo e le disposizioni legislative internazionali, non vogliamo essere penalizzati".
Per Total si tratta di un momento strategico. Il Vicino Oriente ha il 66% delle riserve mondiali e il gruppo francese ne estrae solo il 18% in questa regione, dove è attivo in sette Paesi. Dal momento che British Petroleum scelse di impegnarsi soprattutto verso la Russia, firmando un contratto importante, il gruppo francese non ha intenzione di lasciarsi defraudare del frutto dei suoi investimenti nel Golfo.
Ma gli Stati Uniti non hanno certo dimenticato che Total li aveva sfidati nel 1997, firmando un contratto legato allo sfruttamento del gas in Iran, a fianco della russa Gazprom e della malaysiana Petronas. Le compagnie americane questo non lo potevano certo fare, allora, per la legge del senatore repubblicano Alfonso D'Amato, che proibiva dal '96 qualsiasi investimento in quel paese, accusato di finanziare il terrorismo. D'Amato aveva anche minacciato la compagnia francese di sanzioni in caso di investimenti in Iran, chiedendo di estendere quella legge a tutto il mondo occidentale. Ma l'Unione europea non aveva voluto accettare questo "allargamento" della legge e preso le difese di Total. Poi altre compagnie europee hanno investito in Iran: l'italiana Agip e l'anglo-olandese Shell. E compagnie americane avevano denunciato alla stampa la legge D'Amato, che legava loro le mani.
Insomma, la mappa degli interessi e dei contrasti tra i colossi petroliferi ha radici profonde. Che oggi influenzano con una logica ben precisa gli schieramenti in campo.