Ordini industriali a picco - Gzibordi
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By: GZ on Lunedì 08 Luglio 2002 17:07
c'è un articolo molto ben fatto sul corriere economia di oggi (la pubblicazione finanziaria migliore in lingua italiana).
Intervista i produttori di macchine utensili che oltre a essere un settore cruciale per l'italia sono il settore più sensibile al ciclo economico mondiale che esista.
E in tutte le interviste si parla di caduta MINIMA degli ordini del 20% e di un peggioramento della congiuntura dopo Enron, Worldcom e compagnia.
In borsa di quotate c'è Fidia e Prima Industrie del settore, ma è un discorso che ha implicazione per tutto il settore manifatturiero, l'euro e il resto.
Se uno usa come indicatore economico il settore macchine utensili (e non le statistiche del PIL o peggio le proiezioni) dovrebbe dire che l'euro non sale e i tassi scendono
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INCHIESTA Viaggio nel cuore dell’industria della Penisola: terzi al mondo dopo i giapponesi e i tedeschi, i produttori di macchine utensili sono in crisi
«I nostri ingranaggi ora girano a vuoto»
Ordini in caduta, capacità produttiva ai minimi. Causa: competitività in calo e export frenato da euro e recessione. Ecco le strade per resistere
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C' è qualcosa che stride fra la loro segreteria telefonica e ciò che producono. And I love her , canta il telefono padovano dei signori Parpajola e Pasquetto, ex operai, azienda Parpas: le loro fresatrici lavorano i pistoni della Ferrari. I just called to say I love you , cinguetta quello torinese dell'ingegner Giuseppe Morfino, azienda Fidia: il vostro cellulare forse viene dalle sue presse. C'è una contraddizione fra questi imprenditori nati nel Dopoguerra appassionandosi a un tornio e la società dei beni che hanno contribuito a costruire. Quella del gigante invisibile che lavora, s'entusiasma: ma nessuno lo sa. Sono 450 i produttori italiani di macchine utensili in Italia, le macchine per fare le macchine: i terzi al mondo (produzione per 4.632 milioni di euro nel 2001, »1,1%) dopo giapponesi e tedeschi. Sette su dieci (il 66,9% stima l'Ucimu, loro associazione confindustriale) contano meno di 50 dipendenti e (al 76%) hanno fatturato nel 2000 meno di 12,5 milioni di euro. Sono la spina dorsale dell'economia italiana. E' dalle mani dei loro operai (34.260 addetti, 70 in meno di due anni fa) che escono i nostri oggetti quotidiani. Le porte degli ascensori, i cestelli delle lavatrici, i binari di quell'aletta che si vede rientrare quando l'aereo atterra: tutto fabbricato con le loro macchine. Sono il termometro dell'economia nazionale. E che cosa segna questo termometro? Un calo di competitività. Pericoloso ma affrontabile. Nel 2001, rivela l'Ucimu, gli ordini interni sono precipitati del 22,6%, quelli esteri del 18,6%, l’utilizzo della capacità produttiva è sceso al 79%, minimo dal 1997. Colpa della ciclicità del settore ma anche dell'11 settembre, del flop dell'auto, della concorrenza di Germania e Olanda. E il 2002, benché valutato con ottimismo da Andrea Riello, presidente dell'Ucimu e di quella Riello Sistemi con giro d'affari in crescita (»37% nel 2001), è visto finora come «anno da cancellare» dai singoli industriali: anche per timore di un euro troppo forte, pericoloso in un settore che esporta il 49,4% di quel che produce. Lo ammette Riello: «Se supera la parità col dollaro, l'euro può diventare un problema». E però aggiunge: «Entro fine anno riprenderanno gli investimenti. Non c'è scelta». E' un tentativo di recupero fondato su tre C: Clienti (da accudire), Capitali (da investire), Conquista (di nuovi mercati). Le tre leve che il gigante sta muovendo per tenere a galla l'economia italiana. Lo dimostrano nove casi, raccolti nella classifica delle 200 maggiori aziende di settore italiane (vedi tabella) . Li abbiamo divisi in quattro categorie: donne, quotate, Nord, Sud.
Le donne. Lucia Manzoni e Angela Picco sono due signore di ferro. Una ha 79 anni e col suo Manzoni Group (5o in classifica) fa presse a Lecco: prima in Italia, seconda in Europa, 70% di export. Ha per clienti finali Bmw ed Electrolux, la chiamano «la Thatcher delle macchine utensili», dice: «Mi piace venir giù in fabbrica alle 7 del mattino». L'altra ha 55 anni e con la Picco fondata da suo padre (non è in classifica) fa sbavatrici (quelle che consentono di non grattare col cambio) a Castano Primo, Milano, clienti Fiat e l'indiana Tata. «Da piccola sognavo di diventare ucimista», osa dire: è stata la prima donna consigliere dell'Ucimu. Rivela Manzoni: «Abbiamo fatturato 118 milioni di euro nel 2001, ne prevediamo solo 100 sia nel 2002 sia nel 2003. Gli ordini sono calati del 20%, abbiamo chiuso uno stabilimento a Torino e stiamo decidendo che fare di un'altro a Milano». Controlla l'azienda al 100% col figlio Alessandro, l'ha fondata col marito nel '54 «senza una lira» e reagisce alla crisi così «facendo economia». Picco conferma: «Nel 2000 abbiamo fatturato un milione e mezzo di euro, lo stesso nel 2001, lo stesso sarebbe quest'anno se non avessimo un ordine nei rulli ceramici, settore diverso che per fortuna abbiamo sviluppato». E ancora: «Da dicembre ho eliminato gli straordinari, gli ordini sono calati del 25%, esporterò il 50% contro il consueto 70%: il rafforzamento dell'euro mi preoccupa». Tattica? «Visitare più spesso i clienti. E investire».
Le quotate. «'A 'dda passà 'a nuttata», dice da Collegno, Torino, Gianfranco Carbonato, fondatore e azionista al 5% di Prima Industrie (6a in classifica). E si capisce. La sua è l'unica azienda del settore che, con la conterranea Fidia (21a), controllata al 60% dal citato Morfino e guidata dall'amministratore delegato Luigi Visconti, ha osato affrontare la Borsa. Fa macchine laser per lamiera e dal collocamento, nel 1999, ha guadagnato il 4%. Tempismo. Fidia infatti, che fa macchine per stampi (esempio: per le suole delle Nike) e si è quotata a fine 2000, ha perso: il 40%. E' il danno della doppia esposizione: alla congiuntura e ai mercati. Sommato alla forte dipendenza dall'estero (che incide sul fatturato dell'una all'80%, dell'altra al 65%), dà peso all'allarme delle due società. Visconti: «Il 2002 sarà un anno da dimenticare. Nel settore sento parlare di riduzione dei volumi del 25%, di cassa integrazione... Il nostro budget era di crescita, saremo in flessione». Carbonato: «Non mi aspettavo un secondo trimestre così. Abbiamo dovuto licenziare un terzo dei nostri 180 lavoratori americani. L'anno scorso abbiamo acquisito un'azienda a Minneapolis, oggi non lo farei più». Le contromisure? Ristrutturazione e nuovi mercati. Non di Borsa, però, veri: come la Cina, dove Fidia vuole triplicare in due anni.
Il Nord. «Ah, l'espòrt! -, si duole il già citato Parpajola -. Oggi copre il 35% del giro d'affari, era al 50% un anno fa». La sua Parpas, 12a in classifica, 30% di calo degli ordini quest'anno, è uno dei quattro casi del Nord. Due nel Veneto: con Parpas, la Salvagnini di Francesco Scarpari a Vicenza (2a in classifica). Uno in Lombardia: la Ficep di Ezio Colombo a Varese (19«). E uno in Emilia Romagna: la bolognese Marpos di Stefano Possati (7«). Quattro aziende, un lamento. «La voce più frequente che sento è il pianto», dice Scarpari, erede Zambon. Che da socio di maggioranza produce macchine programmabili per la lavorazione plastica delle lamiere (come quelle degli ascensori) e commenta: «Il danno di Enron e Worldcom ha fatto peggio delle Due Torri. Ha tolto fiducia e bloccato la ripresa». Gli altri concordano. La Salvagnini, due centri ricerca con 170 persone e un crollo dal 25% all'11% del fatturato Usa, per quest'anno prevede una flessione del 40% degli utili: «Non facciamo più straordinari da nove mesi». La cura: quattrini. «40 milioni di investimenti fra 2001 e 2002 - annuncia Scarpari -. E allargamento all'Est». Stessa strategia per Parpos: «Contiamo di cominciare un nuovo stabilimento da 5 milioni di euro in febbraio». E allarga, ma alla Cina, anche la Marpos, clienti Toyota e Gm, che fa misuratori elettronici. Ha fabbriche in Giappone e in Usa, dov'è stata costretta a tagliare. La Ficep invece ringrazia le agitazioni sindacali dell'anno scorso: «Ci hanno fatto dilatare le date di consegna fino a quest'anno», dice Colombo. Che ha raddoppiato gli investimenti (6 milioni di euro nel 2002») e, siccome produce gli impianti per costruire ponti e strade, invita il Governo ad accelerare sulle Grandi Opere.
Il Sud. E veniamo al Meridione con l'esempio di Michele Vinci, 61 anni, e della sua Masmec, piccolo fiore tecnologico barese (124a in classifica). A Modugno, fa macchine per collaudi e robot, lavora per Bosch ed Electrolux, si è lanciato in uno spin-off negli strumenti elettronici. Collabora con il Cnr e sta costruendo un ambizioso «polo di ricerca strumentale» a Bari. Anche Vinci parla di ordini in calo (del 30% nella prima metà dell'anno) e fatturati giù (da 7 a 6,5 milioni di euro). Quale la sua strategia? «Standardizzare. Non faremo più tante modifiche sui prodotti». E attendere: «Perché prima o poi la vita riprende». 'A nuttata passerà.