By: panarea on Martedì 10 Febbraio 2004 10:11
La risposta al post precedente, sempre sul medesimo corriere
Ottimista
Wolf: «Il deficit federale non pesa sull’economia»
Si tratta solo di un trasferimento di fondi. Il discorso cambia per gli stranieri che acquistano buoni del Tesoro
Charles Wolf jr è un economista della Hoover Institution, il centro di ricerche politico-economiche dell’Università di Stanford, e consulente per l’economia internazionale della Rand, l’organizzazione di analisi geopolitica che ha fra i suoi principali clienti il Pentagono. I «deficit gemelli», quello dei conti pubblici e quello della bilancia dei pagamenti, stanno crescendo a vista d'occhio e c’è chi sostiene che potrebbero mettere in crisi l’economia americana. Lei è preoccupato?
«Non più di tanto. Vediamo, tanto per cominciare, il deficit del bilancio federale. Nel prossimo esercizio fiscale è previsto in circa 400 miliardi di dollari. In realtà, però, questo deficit, nella misura in cui viene finanziato dai risparmiatori e dagli istituti finanziari che comprano buoni del Tesoro Usa, non impoverisce l’economia americana. Perché rappresenta un trasferimento di fondi dal settore privato allo Stato, ma sono soldi che vanno comunque ad alimentare l’economia nazionale. L’unica differenza è che, invece di essere spesi per acquistare quello che avrebbero acquistato i privati, questi soldi vengono spesi dallo Stato per altri scopi. Il bilancio di previsione, infatti, contiene aumenti delle spese militari del 7%, di quelle per la sicurezza interna del 10%. In termini di prodotto interno lordo e quindi dal punto di vista dei cittadini americani, però, non cambia nulla».
Circa la metà dei buoni del Tesoro emessi dagli Usa, però, viene acquistata da stranieri, in particolare cinesi e giapponesi, che in questo modo finanziano il deficit pubblico americano.
«E’ vero, gli acquisti di buoni del Tesoro Usa da parte di stranieri rappresentano un effettivo trasferimento di risorse americane all’estero, in quanto Washington dovrà pagare interessi e rimborsi utilizzando le tasse pagate dagli americani. Quindi una perdita netta in termini di Pil e una riduzione delle risorse disponibili per gli Usa».
E anche un rischio potenziale, in quanto privati e banche centrali di paesi come il Giappone e la Cina potrebbero decidere di non comprare più buoni del Tesoro e titoli azionari americani, mettendo in crisi i mercati finanziari Usa.
«Certo, potrebbero addirittura decidere di disfarsi dei loro titoli in dollari. Questo avrebbe l’effetto di provocare un forte rialzo dei tassi d’interesse Usa, con serie conseguenze per l’economia. Ma dubito che lo farebbero. Perché ci rimetterebbero. Supponiamo che i cinesi, che hanno riserve valutarie equivalenti a 400 miliardi di dollari di cui la metà in dollari, e i giapponesi, le cui riserve di 500 miliardi sono costituite per oltre la metà da buoni del Tesoro Usa, decidessero di liquidare dollari per comprare euro o altre valute considerate più solide. La conseguenza immediata sarebbe il crollo del valore della moneta americana e dei titoli americani che detengono. Finirebbero, insomma, per bruciare una quota consistente delle loro riserve valutarie».
Il timore di dissanguare le proprie riserve valutarie, però, non è il solo fattore che scoraggerebbe le vendite di dollari. Giappone, Cina e gli altri Paesi creditori degli Usa commetterebbero, in sostanza, un atto ostile nei confronti della potenza egemone globale.
«Non credo che gli Stati Uniti esercitino pressioni politiche su questi paesi per indurli a non vendere dollari e a continuare ad accettarli. Non è una questione di rapporti con la superpotenza, quello che conta, per questi Paesi, è il proprio interesse. Il segretario al Tesoro John Snow dovrebbe spiegare che liquidare le loro riserve di dollari avrebbe, per i Paesi creditori degli Stati Uniti, effetti finanziari disastrosi. E va anche ricordato che gli acquisti di titoli del Tesoro, di azioni di aziende e altri investimenti negli Usa non sono motivati dall’esigenza di investire i dollari generati dai surplus commerciali fra questi Paesi e gli Stati Uniti. C’è, infatti, chi investe in Usa perché ha fiducia nelle prospettive dell’economia di questo paese».