By: Roberto964 on Lunedì 14 Gennaio 2013 20:48
"Secondo me pur avendo ancora qualche mese di tempo per svoltare pagina, vedo già apparire la scritta Game Over. Sono pessimista."
Caro Lelik,
il tuo pessimismo e anche il mio (unitamente al tuo modo di pensare), mi aspettavo -e pregavo- per una fine più veloce, invece, mi sa che faremo la fine della rana e quando si accorgeranno -lor signori gli increduli- che l'acqua è troppo calda saremo già quasi morti.
Sai che mi ha incuriosito con la storia dei francobolli? Vado a chiedere al tabacchi e ti faccio sapere.
in verità, a piè pagina dell'articolo c'erano le note dei riferimenti da cui erano tratti,
provo a ripostarli: per comodità di chi legge riposto il tutto.
Le radici del debito pubblico italiano affondano nell’accanimento ideologico contro la spesa sociale, che una blanda politica d’imposizione e di negligenza nella lotta all’evasione fiscale non seppe contrastare.
Ma le scarse entrate che figurano nei bilanci dello Stato degli anni Ottanta non potrebbero spiegare da sole l’impennata del debito registratasi nei primi anni Novanta: questi ultimi furono infatti caratterizzati da avanzi primari molto marcati: il record spetta al 1997, che si chiuse con un avanzo pari al 6.6% del PIL, più del doppio della media europea.
Vi fu un secondo meccanismo che costrinse lo Stato a indebitarsi a oltranza: il mercato.
Fonte: ISTAT
Per tutti gli anni Sessanta e Settanta, i governi avevano puntato sul deficit di bilancio per sostenere la domanda e quindi l’occupazione. Se da un lato il finanziamento del debito attraverso emissione di moneta aveva permesso di mantenere sotto controllo il debito pubblico, dall’altro aveva comportato lo spiacevole inconveniente dell’inflazione. Secondo la teoria dell’economista britannico John Maynard Keynes, i periodi di inflazione avrebbero dovuto essere accompagnati da forte crescita della domanda, mentre i rallentamenti della crescita avrebbero dovuto avere come contropartita un rallentamento dei prezzi.
Anche in Italia come nel resto dei paesi occidentali, gli shock petroliferi degli anni Settanta misero in crisi questo mondo ideale: la stagflazione, presenza contemporanea di inflazione e recessione fece la sua comparsa.
Fino al 1981 il deficit dello Stato poteva essere finanziato con emissione di moneta da parte della banca centrale: dal 1975 la Banca d’Italia era obbligata a sottoscrivere i titoli di Stato rimasti invenduti durante le aste.
Vera e propria svolta nella storia del debito pubblico italiano, nel 1981, per iniziativa dell’allora ministro del tesoro Beniamino Andreatta in stretta collaborazione con il Governatore Ciampi, il divorzio fra banca centrale e tesoro sancì la fine del finanziamento obbligatorio del debito tramite emissione di moneta: la Banca d’Italia avrebbe potuto sottoscrivere o meno i titoli di Stato a sua discrezione. Ovviamente il prezzo da pagare era la dipendenza del finanziamento del debito pubblico dal settore privato: “da quel momento in avanti la vita dei ministri del Tesoro si era fatta più difficile e a ogni asta il loro operato era sottoposto al giudizio del mercato” [25] dichiarò Andreatta.
Con buona pace della norma costituzionale secondo la quale il potere appartiene al popolo, fu messa nelle mani del «mercato», cioè di un gruppo ristretto di banche, la possibilità di generare una crisi finanziaria di dimensioni nazionali rifiutando di finanziare il debito della collettività.
A detta dello stesso Beniamino Andreatta si trattò di una “congiura aperta” che non ebbe consenso politico ne l’avrebbe avuto negli anni seguenti: “naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’ escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale” [22].
L’operato di Andreatta non si potrebbe capire senza conoscerne il profilo politico: neoliberista della prima ora, Andreatta ebbe il merito di esporre senza mezzi termini la sua ricetta per la riduzione del disavanzo pubblico: nel 1985, in veste di consigliere economico del segretario DC De Mita dichiarava: «si deve rimettere in discussione la dotazione dei diritti sociali che il cittadino italiano ha acquisito in questi ultimi quindici anni e che ritiene in qualche misura un patrimonio ineliminabile» [26] al fine di risanare il bilancio pubblico la cui situazione era peggiorata a causa... dell’“incapacità dei governi a risolvere il problema della spesa pubblica” [22].
Con una costanza che ha dello straordinario si ritorna alla stessa guerra ideologica contro la spesa pubblica: se, rinunciando all’imposizione fiscale, i governi avevano usato lo strumento del debito per portare lo Stato Sociale ai livelli della media europea, il «divorzio» fu un colpo mortale a ogni politica di spesa.
Ma c’è di più: a partire dal 1981 si creò in Italia quella scandalosa ingiustizia sociale che furono i titoli di Stato, una rendita finanziaria enorme, a lungo totalmente esente da imposizione.
Si coniò una nuova espressione (BOT people) al fine di intrattenere l’illusione «democratica» secondo la quale i titoli di Stato sarebbero stati nelle mani di una miriade di piccoli risparmiatori (si legga Chi possiede il debito pubblico italiano?). La realtà era ben diversa: nel 1985 oltre il 40% dei titoli in circolazione erano posseduti da banche e istituti di credito [27] mentre secondo il comunista Napoleone Colajanni il 57% degli utili FIAT e il 62% degli utili Olivetti per il 1984 provenivano da interessi su titoli [28].
Quest’ultimo fenomeno merita un ulteriore approfondimento.
L’esenzione fiscale dei titoli di Stato permetteva alle imprese di eludere il fisco in modo alquanto elegante: bastava ottenere un prestito da una banca al solo fine di acquistare BOT e CCT e, alla fine dell’anno, si sarebbero potuti iscrivere in bilancio interessi passivi (dovuti al prestito bancario) che andavano a ridurre l’utile imponibile e interessi attivi (dei titoli di Stato) esenti da imposte.
Questo meccanismo era noto a tutti, ma se da un lato Andreatta parlava di “frivoli discorsi di tassazione” [29] dei BOT, dall’altro l’atteggiamento di Goria non lasciava dubbi: “da oltre un anno stiamo invitando le aziende ad autoregolarsi e non lo hanno fatto. A questo punto è necessario intervenire con garbo ma con efficacia, anche perché questo fenomeno non solo sottrae gettito all’erario, ma altera anche artificialmente i flussi finanziari” [30].
Il governo pregava gentilmente gli evasori di autoregolarsi...
Alla fine del 1991, la percentuale di titoli del debito pubblico indicizzati o a breve termine era salita al 66,56% [31] e la vita media dei titoli era estremamente bassa: 2,96 anni [32]: per paura di una nuova fiammata dell’inflazione, il «mercato» aveva puntato tutto sui titoli strettamente legati al tasso ufficiale di sconto (TUS) per poter trarre profitto da un eventuale rialzo dei tassi.
Questo dato apparentemente innocuo fu la condizione che permise alla tremenda ondata di speculazione monetaria del 1992 di dare una spallata decisiva al debito pubblico: resa possibile dalla liberalizzazione del mercato dei capitali voluta dall’Unione Europea, la speculazione monetaria si accanì contro la Lira a partire dal settembre del 1992.
La meccanica del fenomeno era riassunta così da Henry Kaufman, noto trader di Wall Street: “oggi il mercato finanziario funziona bene, è facilissimo entrarne e uscirne. E questa estrema mobilità consente agli operatori di aggravare le difficoltà della lira” [33].
Nessuno trovò nulla da ridire al legame fisiologico fra “un mercato che funziona bene” e la speculazione, anzi, la soluzione dei problemi italiani si trovava altrove.
La dichiarazione di Luigi Abete, presidente di Confindustria dell’epoca, ha il merito di essere di una chiarezza cristallina: “Serve un decreto urgente di governabilità, un provvedimento da approvare entro due settimane che crei subito le condizioni di un forte ribasso dei tassi d’ interesse. Come? Tagliando e contenendo la spesa pubblica senza ricorrere a nuove entrate, anche a costo di gelare i consumi familiari; avviando la razionalizzazione di pensioni e sanità; privatizzando subito due o tre aziende pubbliche” [34].
Di fronte alla speculazione che faceva cadere il cambio della lira, il Governatore Ciampi non poté far altro che alzare il tasso di interesse. Il Tesoro, spinto dalle scadenze medie molto corte dei titoli di Stato, non poté far altro, a sua volta, che aumentarne la remunerazione.
Il debito pubblico passò dal 98 al 121.5% nei tre anni che vanno dal 1992 al 1994 [35] a causa di un disavanzo interamente dovuto alle spese per interessi.
Ronald Reagan, durante il suo primo mandato, ridusse le imposte del 25% in tre anni. A detta del presidente repubblicano, la riduzione della pressione fiscale avrebbe liberato enormi risorse per gli investimenti, i quali avrebbero favorito l’occupazione e la crescita. Quest’ultima avrebbe fatto a sua volta lievitare le entrate fiscali dello Stato in modo da compensarne la riduzione. Quando, alla fine nel 1985, il deficit dello Stato americano raggiungeva quota 220 miliardi di dollari, Reagan si presentò davanti al Congresso americano chiedendo imponenti tagli di spesa per ripianarlo, mentre manteneva la riduzione dell’aliquota di imposizione sui redditi più alti dal 70 al 28%. L’immagine che dipinsero i giornali di un presidente deluso e rammaricato dal fallimento delle sue promesse elettorali (un avanzo di 120 miliardi di dollari nel 1986) era del tutto falsa: in realtà Ronald Reagan aveva in tasca quello che considerava uno degli obiettivi principali della sua presidenza: “smantellare lo Stato Sociale, che è l’incubo dei contribuenti”. Milton Friedman dichiarava nel 2003 a proposito dell’intervento dello Stato in economia: “Come si potrà mai riportare lo Stato a delle giuste dimensioni? Penso che ci sia un solo modo: quello con cui i genitori controllano le spese eccessive dei loro figli cioè diminuendone la paghetta. Per un governo, ciò significa ridurre le tasse” [36]. Essendo le tasse estremamente basse nel 1981 in Italia, toccherà a Beniamino Andreatta eliminare l’ultima possibilità di finanziamento della spesa pubblica con il divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro.
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[1] La paura e la speranza
[2] Le radici del declino italiano, 27 dicembre 2002, La Repubblica
[3] Dino Pesole, I debiti degli italiani, Editori Riuniti - 1996, pag. 29
[4] Base informativa pubblica della Banca d’Italia, sezione Statistiche di finanza pubblica nei Paesi dell’Unione Europea
[5] Nel 1945 nacque la Sécurité Sociale in Francia e nel 1946 il National Healcare System in Gran Bretagna
[6] Si noti che i governi che si succedettero fra il 1945 e il 1958 non ritennero nemmeno necessaria l’istituzione del Ministero della Sanità...
[7] Libro bianco sull’IRPEF
[8] Questa incongruenza fu una delle ragioni che spinsero Cesare Cosciani a dimettersi dall’omonima commissione prima della fine dei lavori
[9] Disfunzioni ed iniquità dell’Irpef e possibili alternative: un’analisi del funzionamento dell’imposta sul reddito in Italia nel periodo 1977-83, Vincenzo Visco, 1984
[10] C. A. Ciampi: Considerazioni finali per l’anno 1983, p. 16
[11] C. A. Ciampi: Considerazioni finali per l’anno 1984, p. 23
[12] C. A. Ciampi: Considerazioni finali per l’anno 1985, p. 7
[13] Si, Ciampi ha ragione: le cose non vanno bene, 19 luglio 1984, La Repubblica
[14] Il Presidente del Consiglio allarmato: ‘Deficit, un problema gigantesco’, 11 settembre 1985, La Repubblica
[15] La Confindustria a Craxi: ‘Bisogna governare l’economia’, 11 luglio 1985, La Repubblica
[16] Nuovo catasto e patrimoniale: queste le proposte comuniste, 31 ottobre 1984, La Repubblica
[17] Io, ministro del buonsenso , 8 settembre 1985, La Repubblica
[18] Ronald Reagan
[19] C. A. Ciampi: Considerazioni finali per l’anno 1980, p. 23
[20] Ecco la strategia del rigore, 5 settembre 1985, La Repubblica
[21] Il Fondo non crede alla nostra austerità, 8 ottobre 1985, La Repubblica
[22] La CEE critica il bilancio italiano, 7 luglio 1985, La Repubblica
[23] Per esempio, le statistiche venivano ristrette al gruppo del G7 al fine di escludere i paesi nordici che mostravano pressioni fiscali attorno al 50%. Da notare che, nemmeno in questo modo, l’Italia non figurò mai al primo posto.
[24] Cinque mesi, 600 votazioni: adesso la finanziaria c’è, 27 febbraio 1986, La Repubblica
[25] Il divorzio fra tesoro e Bankitalia e la lite delle comari, 26 luglio 1991, Il Sole 24 ORE
[26] Incalzato dagli alleati, Craxi risponde in Senato, 31 luglio 1985, La Repubblica
[27] Mercato finanziario, istituzioni e debito pubblico in Italia nella seconda metà del novecento, Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’
[28] Dopo Torino, 5 dicembre 1985, La Repubblica
[29] La finanziaria è solo l’inizio: per risanare ci vogliono tasse, 4 ottobre 1985, La Repubblica
[30] Goria esclude ancora la tassazione dei BOT, 19 ottobre 1984, La Repubblica
[31] Direzione Generale del Tesoro per il debito pubblico
[32] A titolo di esempio, nello stesso anno il 38% del debito pubblico francese era finanziato con titoli
indicizzati o a breve termine. La vita media del debito era di 6 anni.
[33] Un governo più forte e la speculazione finirà, 3 aprile 1993, La Repubblica
[34] Agnelli e Abete: due settimane di tempo per evitare il disastro, 9 settembre 1992, La Repubblica
[35] Cioè lo stesso aumento registrato fra il 1981 e il 1991. Da notare che gli stessi tre anni si conclusero con
un avanzo primario, dimostrando ancora una volta, che non era certo la spesa a far crescere il debito.
[36] Tax cuts = smaller government, 20 gennaio 2003, The Wall Street Journal Europe