By: Moderatore on Domenica 18 Maggio 2003 23:00
Allen Sinai: «L’euro andrà a quota 1,20. Dovete fermarlo»
WASHINGTON - Allen Sinai è reduce da una visita in Europa. Ed è allarmato: «La situazione nell'Ue è peggiore di quanto pensassi - avverte -. Con l'economia Usa in ristagno, temo che a questo punto siamo alla vigilia di una recessione globale. Dobbiamo prendere misure immediate».
Proprio su questo l'economista di Boston è stato appena consultato dalla Casa Bianca: «Ho esortato la nostra amministrazione a continuare a ridurre le tasse e a ribassare i tassi di interesse - dice -. Il presidente Bush lo sta facendo e il Governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan, lo farà alla riunione di fine giugno. Stanno lavorando all'unisono per il rilancio economico. Voi in Europa restate invece con le mani in mano».
La sua è un’immagine peggiore di quella manifestata dai ministri finanziari del G7.
«Non vedo prospettive di ripresa nell'Ue a causa della Germania, dell'Italia e della Francia. E la vittoria nella guerra in Iraq non ha rilanciato l'America come invece speravamo. Inoltre, in Asia il Giappone ansima, mentre la Cina è paralizzata dall'emergenza Sars».
Che cosa può fare l'Ue?
«Innanzitutto, la Banca centrale europea deve ribassare gli interessi: se non lo farà, l'euro si apprezzerà ancora più, voi esporterete meno e la recessione si aggraverà. Dovete anche modificare i parametri di Maastricht, o meglio la clausola che li sospende soltanto se il prodotto interno lordo cala del 2% o oltre».
Ma in questo modo non si rischia il caos fiscale?
«No. Voi non avete calcolato che una crescita economica tra lo zero e l'1%, se protratta, produce numerosi effetti negativi: incide sugli investimenti, sul credito, sull’impiego, sui consumi e così via. Con l’economia così a rilento il deficit di bilancio dei vostri Paesi dovrebbe potere superare il 3% del Pil».
C’è bisogno di un deprezzamento dell'euro?
«L'euro è avviato a quota 1,20 rispetto al dollaro, che soffre della congiuntura americana. L'amministrazione Bush non difende il dollaro perché il suo calo aiuta l'export, in particolare verso la Ue. A voi conviene fermare l'ascesa dell'euro proprio per le ragioni che le ho appena detto».
Non conviene anche agli Usa? Dopotutto, la svalutazione del dollaro vi priva di capitali, che si spostano verso l'euro.
«Finora il dollaro debole ci ha più giovato che danneggiato. Ma è vero che, se proseguisse, non riusciremmo a finanziare il deficit dei conti correnti, che è di 500 miliardi di dollari, e quello del bilancio, che potrebbe arrivare a 400 miliardi».
Che cosa pensa che occorra a livello globale?
«Bisognerebbe coordinare le politiche fiscali e le politiche dei tassi d’interesse. Serve uno sforzo collettivo per uscire dalla crisi. E' impossibile ritornare in fretta ai forti ritmi d'espansione degli anni ’90, ma è possibile impostare una ripresa che, non illudiamoci, richiederà comunque tempo».
Le incertezze geopolitiche non sono un ostacolo?
«Lo sono. L'Iraq è un’incognita, il terrorismo aumenta in tutto il mondo e le Borse tremano».
Deflazione Il pericolo alle porte
di ALESSANDRO PENATI - corriere 18/5 ---
L a probabilità di una sfavorevole, significativa caduta dell'inflazione, per quanto contenuta, eccede quella di un'accelerazione dell'inflazione dal suo già basso livello»: la frase di Alan Greenspan segna una svolta. Il pericolo non è più l'inflazione, ma la deflazione: un fenomeno di cui il mondo occidentale si è dimenticato, e considerato un'anomalia in Giappone, dove è presente da sei anni. Con la deflazione, le imprese non possono contare sulla forte crescita dei ricavi per abbattere l'onere dei debiti; e non potendo ridurre i salari, per contenere i costi tagliano l'occupazione, innescando una contrazione nei consumi. Negli Stati Uniti, i prezzi al consumo stanno ancora crescendo: nell'ultimo anno - esclusi alimentari e benzina, troppo volatili - sono saliti solo dell'1,5%; ma da gennaio sono praticamente fermi.
Tenuto conto che l'indice dei prezzi è una media, e tende a sovrastimare l'inflazione non tenendo conto dei miglioramenti qualitativi (l'indice dei prezzi delle auto ignora l'aumento di prestazioni ed equipaggiamento), per qualche impresa è già deflazione.
Per l'economia in generale, la deflazione resta solo un rischio; ma la Fed ha voluto far sapere di essere pronta ad affrontarlo. Tuttavia, la capacità inutilizzata è ancora tanta, e il costante incremento della produttività basta a produrre quanto domandato, senza creare posti di lavoro. Così le aziende tagliano costi e listini per mantenere margini e quote di mercato. Uno scenario che ha fatto cadere il rendimento dei titoli di Stato (3,4% il decennale) al minimo dagli anni Cinquanta. La Borsa, invece, vola perché vede la ripresa dietro l'angolo. Uno dei due mercati sta prendendo un granchio.
La caduta del dollaro attenua il rischio deflazione negli Usa, e contribuisce a riequilibrare l'enorme disavanzo dei conti con l'estero. Ma esporta il rischio deflazione in Europa, dove la domanda esterna è la principale fonte di crescita da due anni, e l'economia si è già fermata. Più di tutti rischia la Germania: avendo bassa crescita e costi elevati, con l'euro avrà sempre un'inflazione inferiore alla media europea. Da fine 2002, i prezzi al consumo tedeschi sono già in calo (-0,9% su base annua).
Ma l'inflazione misurata (come in altri Paesi europei) riflette anche le rendite da monopolio in tanti servizi e la forza dei sindacati nell'ottenere incrementi salariali: così, la pressione al ribasso sui prezzi di molti beni è maggiore di quanto appaia dagli indici. Pur menzionando per la prima volta i rischi da troppa poca inflazione, la Banca centrale europea mantiene una serafica tranquillità, e non fa nulla per scongiurarli, sicura della ripresa dietro l'angolo. Se si sbagliasse, ci dovremmo attendere un altro anno difficile.