Bisognerebbe limitarsi solo alla Cina - gz
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By: GZ on Giovedì 23 Ottobre 2003 21:41
Guardavo prima di uscire le materie prime che anche oggi stanno esplodendo (i grafici della soya e del cotone sono diventati delle linee verticali) e voglio ricopiare qui questo articolo spettacolare sul corriere che da un idea di quello che è il fenomeno più stupefacente del 21 secolo.
Bisognerebbe essere coerenti e limitarsi a investire solo su società o mercati legati alla Cina o influenzati da quello che succede in Cina, tutto il resto sono solo oscillazioni secondarie.
C'è una specie di king kong che è stato scatenato, 1.2 miliardi di persone che di colpo, meno di dieci anni fa si sono buttati a capofitto nell'industrializzazione con un accanimento mai visto, una fenomeno di dimensioni senza precedenti nella storia.
" (la Cina).....il caso di industrializzazione più veloce che si sia mai visto nella storia. Le esportazioni britanniche, dopo il 1830, ci misero 12 anni a raddoppiare. Quelle tedesche, negli anni Sessanta del secolo scorso, dieci anni. Quelle giapponesi, negli anni Settanta, sette anni. Quelle cinesi, al cavallo del 2000, sono raddoppiate in cinque anni. Meglio ancora: tra il 1990 e il 2003 sono aumentate di otto volte, agli attuali 380 miliardi di dollari,..."
"....Un operaio cinese lavora 2.370 ore all’anno, senza contare gli straordinari, contro le 1.670 di un operaio italiano. Il costo, che in Italia è di 20-22 mila euro, in Cina è di meno di mille euro. Siamo cioè a 0,45 euro di costo del lavoro all’ora contro i 13 euro dell’Italia. Ma non è solo questione di costo del lavoro: costruire una fabbrica, compresi i macchinari, qui costa 30 euro al metro quadrato, in Italia siamo a 5-600. Complessivamente, i costi sono meno di un trentesimo di quelli italiani. A parità di qualità. ..."
COSTA UN VENTESIMO PRODURRE IN CINA A PARITA' DI QUALITA...
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Lavoro, pasti e letto in fabbrica I cinesi che sconvolgono il mondo
L’imprenditore italiano: «Ormai non si può non produrre qui»
DAL NOSTRO INVIATO
DONGGUAN (Cina) - Zhang Hong, 21 anni, si spazzola i capelli sul ballatoio del dormitorio. La domenica è l’unico giorno di riposo e le voci delle ragazze riempiono il cortile della fabbrica. Hong ride e dice che a tornare al nord, nello Hunan, non ci pensa proprio. «Sono arrivata qua alla fine dell’anno scorso, poco prima della Sars - racconta - guadagno più di ottanta dollari al mese e mi danno un letto e da mangiare. Certo, qua dentro litighiamo in continuazione, tra noi. Ma a casa facevamo la fame». Fabbrica di pelletteria nel quartiere di Chang’an, Dongguan City, conglomerato urbano di sette-otto milioni di persone sul delta del Fiume delle Perle, provincia del Guangdong, Cina del sud: se cercate gli spiriti animali del capitalismo del Ventunesimo Secolo, eccoli qua; hanno il profilo crudele ma una forza magica che suscita speranze. E stanno sconvolgendo il mondo.
Queste ragazze - che lavorano, mangiano e dormono in fabbrica - ricordano le nostre mondine degli anni Trenta e le loro storie, cucite assieme, raccontano il fenomeno Cina, il miracolo economico pieno di luci e di ombre contro il quale si mobilitano il ministro Giulio Tremonti e le lobby americane che chiedono a George Bush di frenare il nuovo pericolo giallo. Sono i piccoli pedoni della grande rivoluzione manifatturiera in atto.
«Fare l’imprenditore oggi senza tenere conto dei cinesi è impossibile, ormai non si può non produrre qui», dice Marco Palmieri, l’imprenditore di Bologna che ha convinto Peter Miu, il businessman di Hong Kong proprietario della fabbrica, ad aprirne i cancelli. Palmieri ha un’azienda di pelletteria, la Piquadro: borse e valigie di lusso, non roba da mercatino, che vengono in buona parte prodotte in questa e in altre fabbriche della zona. «Sono aziende velocissimi e flessibili, più che da noi - dice Palmieri - la qualità è alta tanto quanto in Italia. E, soprattutto, il prodotto finito, anche tenendo conto del trasporto, costa enormemente meno, senza paragoni».
L’imprenditore bolognese non crede che l’idea di Tremonti di mettere dazi sui prodotti cinesi sia buona. «Sinceramente, non mi sembra praticabile, ormai qui si produce gran parte dei beni che si consumano in Occidente - dice -. E comunque non ci farebbe nemmeno bene. Basta mettere piede nel Guangdong per capire che ci sono un sacco di affari da fare, altro che avere paura dei cinesi». In effetti, il delta del Fiume delle Perle è una frontiera lungo la quale capita di trovare di tutto.
«Le mie operaie, che sono l’85% del totale dei dipendenti, arrivano per lo più dal nord del paese con in tasca solo il biglietto della corriera - dice Peter Miu, il padrone - senza nemmeno un renminbi e devono trovare subito un lavoro. Ma quando lo trovano continuano a creare problemi: furti e litigi sono all’ordine del giorno. Si rubano persino le mutande». Le mutande, infatti, sono stese con i pantaloni e le camicette su uno dei due ballatoi del dormitorio. Qui si dorme in fabbrica: dormitori a più piani, otto ragazze per camera, letti a castello, quattro per parte separati da uno stretto corridoio e chiusi da tende di plastica.
D’altra parte non potrebbe essere altrimenti. Quello che sta succedendo nel Guangdong è semplicemente il caso di industrializzazione più veloce che si sia mai visto nella storia. Le esportazioni britanniche, dopo il 1830, ci misero 12 anni a raddoppiare. Quelle tedesche, negli anni Sessanta del secolo scorso, dieci anni. Quelle giapponesi, negli anni Settanta, sette anni. Quelle cinesi, al cavallo del 2000, sono raddoppiate in cinque anni. Meglio ancora: tra il 1990 e il 2003 sono aumentate di otto volte, agli attuali 380 miliardi di dollari, il 6% del totale delle esportazioni del pianeta. Un boom che ha significato uno spostamento straordinario di masse di lavoratori: ospitarli in fabbrica, dove lavorano, è un obbligo.
Il risultato è, per esempio, che Chang’an, il quartiere dove sta l’azienda di mister Miu, ha 35 mila residenti fissi e 600 mila floating workers , come vengono chiamati nei documenti ufficiali: immigrati che abitano nei loculi delle fabbriche. Ogni aziendina ha un edificio-dormitorio, immense distese di mutande, di canottiere e di centinaia di «lavoratori fluttuanti» che la sera, alla fine del turno, bevono birra sui ballatoi. Il problema diventa serio quando la fabbrica è più di un’aziendina: la Dongguan Fuan Textile Company, sempre a Chang’an, per esempio ha 15 mila dipendenti e per i dipendenti ha dovuto costruire un vero e proprio villaggio: letti a castello e mense ma anche cinema, supermercati, bar, chioschi-ristorante. E, ancora a Dongguan, la Pou Chen - proprietà taiwanese - ha dovuto inventarsi una città nella città per sistemare gli 80 mila dipendenti che ogni anno producono cento milioni di scarpe per la Timberland, la Nike, la Reebok, l’Adidas. «Certo che c’è il sindacato - dice Peter Miu - Sopra i 300 dipendenti è obbligatorio. L’orario di lavoro è di otto ore al giorno per sei giorni e con gli straordinari può facilmente arrivare a undici ore. Ma ogni azienda ha una certificazione di rispetto dei diritti dei lavoratori: le imprese occidentali, soprattutto americane, lo pretendono».
Insomma, è il «socialismo di mercato» che, alla ricerca continua dei costi più bassi, ha prodotto la nuova, immensa fabbrica del mondo. Scarpe, borse, lavatrici, macchine fotografiche, televisori ma anche alta tecnologia: il 30% dell’elettronica prodotta in Asia, per esempio, è cinese. Chi vuole produrre a basso costo viene qui. «Non farlo è una follia», dice Palmieri e lo spirito animale dell’imprenditore gli fa fare questo conto: «Un operaio cinese lavora 2.370 ore all’anno, senza contare gli straordinari, contro le 1.670 di un operaio italiano. Il costo, che in Italia è di 20-22 mila euro, in Cina è di meno di mille euro. Siamo cioè a 0,45 euro di costo del lavoro all’ora contro i 13 euro dell’Italia. Ma non è solo questione di costo del lavoro: costruire una fabbrica, compresi i macchinari, qui costa 30 euro al metro quadrato, in Italia siamo a 5-600. Complessivamente, i costi sono meno di un trentesimo di quelli italiani. A parità di qualità».
Numeri che dicono che il risveglio dell’Impero di mezzo è avvenuto e non lo fermeranno i dazi e le minacce di sanzioni, come non l’ha fermato la Sars, nata proprio qui, nel caos creativo e inquinato del Guangdong. Solo la Cina potrà fare male a se stessa se non saprà controllare una crescita che non ha precedenti e che potrebbe creare sconquassi sociali, finanziari e politici.